nesso di causa in responsabilità medica tra civile e penale
La medicina non è una scienza esatta, non si esprime mai in termini di certezza ma – sulla base dei dati basati sull’evidenza e sull’esperienza e quindi sulla loro meta-analisi statistica – in termini di probabilità.
Laddove si tratti di trasporre valutazioni medico-legali in termini di causalità giuridica tra un fatto certo (l’evento morte, in questo caso) ed un fatto incerto (la condotta doverosa che è stata omessa), ossia laddove si cerchi di ricostruire un nesso di causa in un caso di responsabilità per colpa omissiva, occorre andare alla ricerca del dato contro fattuale secondo leggi scientifiche che, inevitabilmente e ineluttabilmente, mai si esprimeranno in termini di certezza.
In sede penale è necessario raggiungere un grado di probabilità tendenzialmente prossimo alla certezza (che comunque non è mai una certezza al 100%, che non esiste in rerum natura), posto che l’orientamento “Franzese” richiede quell’alto grado di credibilità razionale o di probabilità logica in ragione del fatto che la costituzione richiede che l’accertamento della responsabilità penale debba innalzarsi al di sopra di “ogni ragionevole dubbio”.
Ormai anche la migliore giurisprudenza penale rifugge dall’idea ragionieristica di andare alla ricerca del nesso di causa pretendendo di trovare leggi di copertura scientifiche che dichiarino, uti dogma, un grado di certezza del 100%.
Si cita, ex multis, Cass. Pen. sez. IV, 27.02.2014 n° 9695: “il giudizio di elevata probabilità logica non definisce il nesso causale in sé e per sé (che, sul piano sostanziale, resta invero legato alla rigorosa nozione dettata dalla teoria condizionalistica recepita nel nostro ordinamento dall’art. 40 cod. pen., sia pur temperata dai correttivi della c.d. causalità umana) ma piuttosto il criterio con il quale procedere all’accertamento probatorio di tale nesso causale, il quale (criterio), non diversamente da quanto accade per l’accertamento di ogni altro elemento costitutivo del reato, deve consentire di fondare, all’esito di un completo e attento vaglio critico di tutti gli elementi disponibili, un convincimento sul punto (positivo o negativo che sia) dotato di un elevato grado di credibilità razionale.
Per dirla secondo un’efficace definizione dottrinale “la probabilità logica alla quale è interessato il giudice non è quella del sapere nomologico utilizzato per la spiegazione del caso, bensì attiene ai profili inferenziali della verifica probatoria condotta in chiave induttiva, cioè alla luce delle emergenze del caso concreto”.
Per converso, e in ciò sta probabilmente l’equivoco in cui è incorsa la corte territoriale, ai fini della prova giudiziaria della causalità, decisivo non è il coefficiente percentuale più o meno elevato (vicino a 100 o a 90 o a 50, etc.) di probabilità frequentistica desumibile dalla legge di copertura utilizzata; ciò che conta è potere ragionevolmente confidare nel fatto che la legge statistica in questione trovi applicazione anche nel caso concreto oggetto di giudizio, stante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi, di tal che, in presenza di un elevato grado di credibilità razionale dell’ipotesi privilegiata, ben può ritenersi consentito per la spiegazione causale dell’evento fare impiego di leggi o criteri probabilistico statistici con coefficienti percentuali anche medio bassi; per contro, ove la valutazione degli elementi di prova acquisiti non consentano di assegnare ad es. per l’impossibilità di escludere ragionevolmente nel caso concreto l’intervento di fattori causali diversi un elevato grado di credibilità razionale alla spiegazione causale ipotizzata, quest’ultima non può essere affermata anche se riconducibile a leggi di copertura dotate di frequenza statistica tendenzialmente pari a 100.
L’errore della corte territoriale sta dunque nell’aver presupposto che il criterio di elevata probabilità logica, nel quale si sostanza il ragionamento induttivo inferenziale circa la sussistenza del nesso causale (e l’esclusione di altri ipotizzabili fattori) possa o debba esprimersi in termini percentuali e, correlativamente, l’aver riferito ad esso, intendendolo come fattore che osta alla credibilità razionale del risultato cui esso conduce, la percentuale di frequenza statistica assegnata ad altri fattori in astratto ipotizzabili…”
Ancora “le percentuali statistiche possono valere a delimitare l’ambito di applicazione della legge scientifica e possono essere utili come punto di partenza per quanto riguarda l’applicazione della legge al caso concreto. Avendo peraltro esse un’efficacia esclusivamente prognostica, porle a base o a contenuto del ragionamento probatorio circa la sussistenza del nesso causale nel caso concreto rischia di trasformare tale giudizio in una valutazione ex ante, mentre la causalità va sempre accertata ex post con riferimento all’evento concretamente verificatosi.
Con riferimento invece al grado di inferenza probatoria richiesto a supporto del giudizio di fatto sulla spiegazione causale nel caso concreto “non è sensato cristallizzare in precise entità numeriche la probabilità esigibile: la valutazione va piuttosto fatta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze concrete ed in particolare… considerando il numero e la consistenza delle assunzioni tacite contenute nelle premesse del ragionamento causale.”
Ebbene, se ormai anche nel processo penale è stato ridotto alla ragionevolezza e alla verità ciò che a prima vista nel 2002 sembrava una granitica esigenza, quella di cercare il nesso di causa con un grado di probabilità prossimo alla certezza, nel processo civile quest’esigenza non è mai esistita e men che meno esiste oggi, perché occorre applicare il criterio meno stringente del “più probabile che non”.
E’ noto come la Cassazione abbia affermato a più riprese (cfr. la sentenza 21619/2007 della terza sezione, e la 581/2008 delle sezioni unite) che la regola civile non è quella dell’alto grado di probabilità logica del penale, bensì quella del “più probabile che non” (v. Cass. civ., sez. III, sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008). Il nesso di causalità civilistico consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del «più probabile che non» (Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975). Viene recepita, in effetti, la prassi legale statunitense che applica, ai fini della causalità, il principio “preponderance of the evidence” ossia il già citato criterio del “più probabile che non” (puntualmente applicato dalle Sezioni Unite civili nella sentenza 11 gennaio 2008, n. 576, con la enunciazione del principio probabilistico e della causalità adeguata), risultando conforme al favor victimae che qualifica la funzione sociale della responsabilità civile da illecito, in relazione al diverso principio del favor rei, che concernendo il valore della libertà, esige maggiori garanzie nel campo della repressione penale (così: Cass. civ., 13513/2009). La teoria civilistica della causalità cd. adeguata è stata, da ultimo, ulteriormente ribadita dalle Sezioni Unite (v. Cass. civ., Sez. Unite, sentenza n. 1768 del 26 gennaio 2011, n. 1768) e riccamente illustrata da Trib. Milano, sez. X, 9 dicembre 2009 n. 14694 in Giustizia a Milano, 2009, 12, 84.
Alla luce di questi principi, nella responsabilità civile il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano (ad una valutazione ex ante) del tutto inverosimili (Cass. Civ., sez. III, sentenza 18 luglio 2011 n. 15709).
Per quanto riguarda, in particolare, l’illecito omissivo, nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli.
L’accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
Qualora il CTU rilevi che l’intervento ritardato – ove tempestivamente eseguito – avrebbe evitato l’evoluzione verso il decesso con un grado di probabilità che essi definiscono “di possibilità non meramente virtuale, ma suscettibile di apprezzamento clinico statistico” il che, sotto il profilo giuridico, integra gli estremi del criterio civilistico di accertamento del nesso di causa del “più probabile che non”.
Il fatto che i periti si esprimano in termini di concrete e statisticamente apprezzabili possibilità che l’intervento omesso, laddove tempestivamente posto in essere, avrebbe consentito al paziente concrete chances di sopravvivenza, non deve essere concettualmente travisato ma deve essere apprezzato alla stregua di espressione linguistica per esprimere il concetto della probability causation, quello del “più probabile che non”: se i medici avessero eseguito tempestivamente l’intervento chirurgico, anziché attendere colpevolmente quattro giorni, è (più) probabile (che non) che l’evento morte non si sarebbe realizzato.
E tanto basta per ritenere accertato il nesso causale in sede civile.
Non vi è alcuna differenza di significato tra il dire che la condotta omessa avrebbe evitato la morte che invece si è verificata e dire che la condotta omessa ha sottratto al paziente concrete chances di sopravvivenza, visto che morte e sopravvivenza sono una inesorabile antitesi: posto che per condannare in sede civile è sufficiente accertare che è probabile (più che improbabile) che il paziente non sarebbe morto se il medico avesse posto in essere la condotta dovuta, ed è impossibile esprimere il medesimo concetto dicendo che è probabile (più che improbabile) che il paziente avrebbe avuto concrete chances di sopravvivenza se il medico avesse posto in essere la condotta dovuta.
La funzione del giudice è, infatti, quella di calare la valutazione in termini causali svolta dal medico legale nella connessa (ma non identica) valutazione dell’eziologia in termini giuridici: il criterio giuridico del “è più probabile che non” viene infatti espresso in sede di perizia medico-legale secondo modalità semantiche che possono assumere molteplici forme espressive (“serie ed apprezzabili possibilità”, “ragionevole probabilità” ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del “più probabile che non”.