il nesso di causa nella responsabilità medica

 

 

Il nesso di causalità è l’insieme delle condizioni antecedenti ad un determinato evento che, in base ad un criterio scientifico-statistico, è possibile affermare aver provocato l’evento.

Si risponde di un danno solo se questo sia conseguenza della propria azione od omissione (laddove si avesse l’obbligo giuridico di impedire l’evento: ed il medico ha l’obbligo di curare il paziente e di non lederlo o ucciderlo).

Quanto alle concause, il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, non esclude il rapporto di causalità fra la condotta e l’evento, semmai lo limita in  un concorso di responsabilità: se la mia condotta ha cagionato solo una parte del danno (poniamo il 20% del danno) , ne rispondo in quella misura.

Solo le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, se sono state da sole sufficienti a determinare l’evento: se il paziente muore per una causa sopravvenuta che non ha a che fare con il mio intervento, non rispondo di alcunché.

Il problema è come selezionare (tra le condizioni antecedenti) quelle da porre in correlazione causale con l’evento: quando si ferma la catena della ricerca a ritroso delle cause? Se non si pone un limite, qualsiasi antecedente anche remoto è una causa (il principio è semplice: post hoc, propter hoc).

Ci sono vari  modi per cercare la causa di un evento: sono le teorie giuridiche sul nesso di causa.

Secondo la teoria della “condicio sine qua non”, è causa qualsiasi antecedente in mancanza del quale l’evento non si sarebbe realizzato. Come funziona? con un procedimento logico di “eliminazione mentale”, si valutano tutti gli antecedenti dell’evento e si procede mentalmente ad eliminarne uno per uno: se eliminando l’antecedente viene meno l’evento, significa che quell’antecedente è la causa, o una delle cause.  La teoria lascia un problema aperto: non dice quale è il limite fino al quale si può risalire a ritroso.

Il problema del limite è risolto dalla teoria della “causalità umana” di Antolisei: la condotta dell’uomo è causa dell’evento solo se l’evento non è dipeso da fattori eccezionali (quindi imprevedibile) che rendano del tutto occasionale il nesso tra condotta umana ed evento.

Detto questo, si capisce che la necessità di individuare una teoria funzionante ci sia soprattutto per i casi più complessi. Non è infatti difficile affermare il nesso di causa tra la fucilata e la morte: se elimino mentalmente lo sparo, ottengo che la morte non si verifica.

Ma se devo individuare la causa di una morte per tumore ai polmoni, dovrò immaginare tra i vari possibili antecedenti una serie di fattori, alcuni dei quali sarà possibile inserire solo se a priori si sa essere idonei a cagionare la neoplasia. Se non si sa a priori (in base a dati scientifici) che l’esposizione all’amianto sia di per se una possibile causa di tumori, non c’è modo di scoprilo con una mera operazione di eliminazione mentale. Se non si sa a priori che quel determinato farmaco può provocare, in determinate condizioni, la morte del paziente, non c’è modo di scoprirlo altrimenti.

Ecco allora che ogni problema circa la ricerca delle cause rilevanti si risolve con la teoria della “sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura (essenzialmente statistiche)”: un fattore è causa del danno quando è certo o fortemente probabile che esso regolarmente produce quel determinato evento.

Con che criterio si determina il “fortemente probabile”? Devo avvicinarmi al 100% o bastano probabilità minori? La Cassazione (dal 2002) richiede un elevato grado di probabilità logica, prossima alla certezza.

Nel penale, l’insufficiente, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Nel civile, un nuovo orientamento giurisprudenziale (del 2004) insegna che se il giudice accerta il nesso di causa con “probabilità logica” tendenzialmente pari al 100%, accorda alla vittima il risarcimento dell’intero danno; se invece non è possibile affermare che l’evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, a causa della malpractice del medico, delle chances, che statisticamente aveva, di guarire, il giudice gli accorda un risarcimento limitato alla chance di salute di cui è stato privato.

Questi sono gli strumenti di cui il giudice (normalmente, per mezzo del suo perito medico-legale, il C.T.U.) si avvale per ricercare il nesso di causa: generalizzazioni del senso comune; massime d’esperienza; enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica;  accreditata letteratura scientifica.

Sotto il profilo della prova, il nesso causale tra condotta del medico e danno si presume, quando il sanitario abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno, anche in assenza di certezza circa l’effettiva eziogenesi dell’evento dannoso: per il paziente non è necessario individuare la causa precisa che ha prodotto il suo danno, bensì la relazione causale intercorrente tra l’evento dannoso lamentato e la prestazione medico-sanitaria ricevuta.

Ad esempio: nel caso di lesione del nervo linguale in occasione di un intervento per l’attore non è necessario individuare la specifica manovra determinante il danno, bensì che il danno “sia avvenuto nell’esecuzione di una delle fasi in cui si articolava l’iter operatorio” (Tribunale di Torino, 2004).

Spetta al professionista, per spezzare il nesso di causa, provare la esistenza e la efficienza eziologia di altri fattori – imprevisti, imprevedibili o comunque non superabili mediante la diligenza media richiesta dal di lui operatore – idonei a provocare il danno. Tipica prova liberatoria è dimostrare che l’esito peggiorativo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, oppure dalla esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale.

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