la responsabilità dell’equipe medica

Quali sono i criteri per la distribuzione della responsabilità fra i componente l’equipe?

 

Salve le prestazioni che il singolo professionista svolge nel proprio studio o ambulatorio (l’intervento dentistico, la visita oculistica, ecc.), la maggior parte delle prestazioni mediche, specialmente gli interventi chirurgici effettuati in strutture organizzate con la cooperazione di più specialisti e la collaborazione di altri soggetti (ostetriche, infermieri, tecnici), implica la presenza di una equipe.

Sotto il profilo delle responsabilità, il criterio giurisprudenziale comunemente adottato è quello dell’individuazione delle singole sfere di competenza e della conseguente attribuzione delle relative sfere di responsabilità: pertanto, la dizione “responsabilità dell’equipe” non è concettualmente corretta, pur restando utile come semplificazione espressiva.

Regola fondamentale è che ciascun componente della equipe è tenuto ad eseguire col massimo scrupolo le funzioni proprie della specializzazione di appartenenza. In ogni caso, il chirurgo capo-equipe, in caso di complicanze post-operatorie, non può disinteressarsene abbandonando il paziente alle sole cure dei collaboratori, ma ha obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura ed intervenire.

Per fare un esempio (tratto da un caso vero), poiché ciascun componente l’equipe è tenuto ad eseguire col massimo scrupolo le funzioni proprie della specializzazione di appartenenza, il medico anestesista è tenuto ad adempiere una serie di mansioni che rientrano nel suo preciso ambito di competenza, tra le quali la trasfusione di sangue al paziente; pertanto, quando l’anestesista si avvalga di un collaboratore in funzione di ausiliario, sicché sia costui che materialmente effettua la sostituzione di un precedente flacone esauritosi con altro pieno di sangue nuovo da trasfondere, sussiste per l’anestesista l’obbligo di assicurarsi, prima che l’operazione trasfusionale riprenda con l’immissione di ulteriore liquido ematico, che il tipo di sangue sia esattamente quello che è destinato al paziente.

Nei casi – frequenti – in cui l’evento dannoso sia il prodotto di più fattori causali imputabili alle singole condotte dei membri dell’equipe, troverà applicazione il principio della solidarietà enunciato dall’art. 2055 del Codice Civile: se il fatto dannoso e’ imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido, ossia ciascuno risponde per l’intero danno verso la vittima, che può scegliere se fare causa a tutti i danneggianti o anche solo ad uno di loro. Chi ha risarcito il danno ha poi regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali.

Vi è poi la questione delle prestazioni ripartite tra medici che si susseguano nella cura di un paziente: come si legge in varie sentenze, il medico ospedaliero che termina il suo turno di lavoro ha lo specifico dovere di fare le consegne a chi gli subentra in modo da evidenziare a costui la necessità di un’attenta osservazione e di un controllo costante dell’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze.

Vediamo ora qualche aspetto relativo ai primari.

Nella struttura sanitaria pubblica, l’art. 63 del DPR 761 del 1979 attribuisce al primario il potere di impartire disposizioni e direttive e di verificarne l’attuazione nel rispetto dell’autonomia professionale ed operativa del personale dell’unità assegnatagli.

La responsabilità del primario ospedaliero è più estesa di quella del medico non appartenente alla posizione apicale: egli è tenuto, in quanto medico, ad osservare le regole di condotta della professione (la cui violazione comporta imputazione diretta dei danni cagionati al paziente dalla sua prestazione tecnica) nonché, in quanto primario, ad esercitare una penetrante vigilanza sull’operato dei medici sottoposti alla sua direzione (rispondendo, entro certi limiti, dei danni ascrivibili al comportamento della sua equipe).

Il chirurgo capo-equipe, una volta concluso l’atto operatorio, qualora si manifestino circostanze denunzianti possibili complicanze tali da escludere l’assoluta normalità del decorso post-operatorio, non può disinteressarsene abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha obbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire tali complicanze e tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che un’attenta diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sull’operato dei collaboratori: ne consegue – come dice la Cassazione – che il capo equipe che non abbia tenuto quella doverosa condotta, qualora il paziente muoia per complicanze insorte nel periodo post-operatorio e per carenza di tempestive ed adeguate cure da parte dei suoi collaboratori, il capo chirurgo in questione risponde della morte in concorso (ossia, alla pari) con i collaboratori (il caso era quello di una paziente sottoposta a colecistomia, e venuta a morte alcune ore dopo la conclusione dell’intervento, senza che fosse avvenuto il risveglio post-operatorio, a causa di ipossia cerebrale conseguita alla insufficienza respiratoria istituitasi nella fase di tardiva decurarizzazione, ed insufficiente assistenza respiratoria; nonostante segni di ritardo nel risveglio, il chirurgo operante si era allontanato dalla clinica, dopo la conclusione dell’intervento, disinteressandosi, benché a conoscenza, della crisi nella quale la paziente verteva e delle difficoltà nelle quali il medico anestesista si dibatteva, avendo fallito nei tentativi di rianimazione e non essendo riuscito a praticare intubazione tracheale né ad attivare altre cure e interventi idonei e producenti, tecnicamente possibili).

Chi è responsabile per l’errata diagnosi tra primario e medici sottoposti? Due diverse soluzioni, a seconda che il primario abbia o meno avocato a sé la terapia del paziente: a meno che il primario usi il potere di avocazione (che elimina ogni autonomia in capo al medico assegnatario, riservandogli semplici compiti di collaborazione), l’assistente è responsabile degli errori terapeutici, anche se l’iniziale diagnosi effettuata dal primario fosse erronea.

Nel caso in cui l’assistente (o l’aiuto) non condivida le scelte terapeutiche del primario che non abbia esercitato il suo potere di avocazione, il medico in posizione inferiore, che ritenga il trattamento terapeutico disposto dal superiore costituire un rischio per il paziente o essere comunque inidoneo per le sue esigenze terapeutiche, è tenuto a segnalare quanto rientra nelle sue conoscenze, esprimendo il proprio dissenso con le scelte dei medici in posizione superiore; diversamente egli potrà essere ritenuto responsabile dell’esito negativo del trattamento terapeutico, non avendo compiuto quanto in suo potere per impedire l’evento.

Quando il primario assegna al medico un paziente, l’assegnazione determina la responsabilità di quel medico per gli eventi a lui imputabili che colpiscano l’ammalato: in questo caso il chirurgo in posizione intermedia di “aiuto”, che ha funzioni autonome nell’area di servizio a lui affidata sia pure sulla base delle direttive ricevute dal primario, ha il potere-dovere di stabilire diagnosi e terapia, assumendosene la responsabilità.

E’ interessante notare come sia onere del medico che opera in una struttura sanitaria tener conto di eventuali carenze di dotazione della struttura stessa e, laddove la strumentazione disponibile non consenta di eseguire l’operazione entro margini di sicurezza accettabili, egli deve prendere in seria considerazione l’ipotesi di effettuare l’intervento altrove, a pena di incorrere in negligenza e imperizia. E’ infatti principio pacifico che siano parimenti responsabili, e che quindi vadano condannati solidamente al risarcimento del danno, il medico e l’ente ospedaliero per il mancato uso di normali mezzi tecnici nel corso di un intervento chirurgico (ciò è successo nel caso del mancato uso di un microscopio operatorio, nel corso di un intervento per l’asportazione di un lipoma intradurale, che ha provocato al paziente postumi di natura permanente dell’80%, incidenti sulla integrità psico-fisica).

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