IL CONSENSO INFORMATO

IL CONSENSO INFORMATO

 

Perché è lecita l’attività medica?

 

Perché se cagiono ad un altri una lesione fisica – pensiamo ad una ferita da taglio – commetto il reato di lesioni personali e vengo condannato in sede penale, mentre se provoco quella stessa lesione – pensiamo all’incisione con bisturi – per fini terapeutici nella mia qualità di medico non subisco alcuna incriminazione ?

Il principio cardine è quello dell’autolegittimazione della attività medica, per cui la pratica sanitaria anche invasiva trova fondamento e giustificazione perché è legittima in sé, in quanto posta in essere da un soggetto (il medico), abilitato dallo Stato a tutelare la salute che è un bene costituzionalmente garantito: l’art. 32 della Costituzione dispone infatti che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Il principio dell’autolegittimazione dell’attività medica non è però sufficiente, perché deve esser coordinato con il principio dell’autodeterminazione della persona umana, ed in particolare di quella del paziente: il medico è di per se legittimato ad eseguire interventi invasivi o pericolosi sul corpo del paziente ma, al di fuori di casi eccezionali (casi di estrema urgenza in cui il paziente si trovi pericolo di vita o di altro danno irreparabile e sia incapace di esprimere un consenso od un dissenso), non può intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente.

 

Che rilevanza ha il consenso informato?

 

L’art. 50 del Codice Penale dispone che “non e’ punibile chi lede un diritto col consenso della persona che può validamente disporne”.

L’art 32 del Codice Deontologico dei Medici (1998) stabilisce che il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso informato scritto del paziente.

Se il paziente è in grado di esprimere il proprio consenso al trattamento, è dovere del medico informarlo compiutamente circa la portata dell’intervento, le difficoltà, le probabilità di conseguire i risultati sperati, i rischi prevedibili, gli effetti collaterali, senza peraltro doversi spingere fino a rappresentarsi (e rappresentare al paziente) gli esiti anomali che, in quanto imprevedibili, non possono essere oggetto di preventiva informazione.

Il consenso informato riguarda anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra.

Occorre, inoltre, affinché il consenso sia valido, che il consenziente venga in precedenza edotto dei pericoli insiti nell’atto operatorio, con la prospettazione anche dei possibili esiti incidenti sulla sua vita di relazione che, esulando dai limiti del problema tecnico, non sono rimessi alla scelta del solo sanitario.

Tutti questi elementi devono poter essere valutati dal paziente onde consapevolmente, e quindi validamente, manifestare il proprio assenso.

A seguito dell’informazione ricevuta, il paziente è in grado di esprimere (o negare, se lo ritiene) il proprio consenso: ecco perché si parla di consenso informato.

Il consenso del paziente deve essere manifestato preventivamente al trattamento da eseguire, ed il medico non è abilitato ad eseguire un intervento diverso da quello preventivato e consentito, al di fuori di una condizione di necessità ed urgenza per la salute del paziente.

Se il paziente muore o subisce lesioni a causa dell’intervento chirurgico eseguito senza che egli abbia espresso il proprio consenso informato (salvo i casi di urgenza), il medico risponde di omicidio colposo o lesioni colpose.

A seguito della Convenzione di Oviedo, il codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri il 3 ottobre 1998, ha proceduto ad una revisione del concetto di consenso informato, elaborando una definizione dello stesso più in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione.

L’art. 30 del nuovo codice, infatti, ha previsto che il medico debba fornire al paziente “la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”.

Dietro esplicita richiesta del paziente, inoltre, il medico dovrà fornire tutte le ulteriori informazioni che gli siano richieste.

L’art. 32 ha a sua volta stabilito che il medico non debba intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente; con l’ulteriore necessità della forma scritta per la manifestazione di tale consenso nell’ipotesi in cui la prestazione da eseguire comporti possibili rischi per l’integrità fisica del soggetto.

L’art. 34 ha infine stabilito che il “medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona”.

Da simili principi, profondamente innovativi rispetto a quelli enunciati nel precedente codice del 1995, si è tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione della attività del medico come promanante da soggetto detentore di una “potestà” di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medicopaziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che è stata definita come una sorta di “alleanza terapeutica”;

Simili risultati sono stati poi ribaditi anche nel successivo codice deontologico, approvato dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006, ed il cui art. 35 conferma, appunto, che il “medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”, aggiungendo – quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio della attività medica – che “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.

 

Quando il diretto interessato non sia in grado di prestare personalmente il consenso, le corti ammettono che questo possa venire prestato da un parente stretto, non già come esercizio di un diritto o di un potere proprio del congiunto, quanto come facoltà che si esercita in nome e per conto dell’interessato stesso, inabilitato a farlo. Effettivamente, il consenso del parente non ha la stessa dignità di quello che potrebbe esprimere personalmente il paziente, ma ha più che altro valore indicativo cui il medico può ispirarsi nel decidere – con scienza e coscienza-  se e come intervenire, soprattutto  se il caso è caratterizzato da necessità e urgenza.

Dunque, normalmente l’attività medica è lecita per autolegittimazione e per valida prestazione del consenso informato da parte del paziente.

Nei casi di necessità ed urgenza in cui il paziente non sia in grado di esprimere un consenso, perché per esempio è privo di sensi o in coma, il medico può e deve comunque intervenire: In questi casi l’intervento del sanitario è necessario, infatti è responsabile il medico per l’omissione di cure urgenti ad un malato privo di conoscenza o per il rifiuto di prestare la propria opera quando richiesto.

L’art. 54 del Codice Penale disciplina lo “stato di necessità” e dice chenon e’ punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se od altri dal pericolo attuale di un anno grave alla persona”. L’art. 8 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina prevede che “quando a causa di una situazione di urgenza non è possibile ottenere il consenso si potrà praticare ogni trattamento necessario, dal punto di vista sanitario, per la salute della persona interessata”.

Ed allora, se sussiste pericolo grave per la vita o per la salute del paziente, il medico può comunque intervenire se perché c’è uno stato di necessità. La Cassazione ritiene esente da colpa il medico che abbia agito senza il consenso del paziente, anche nell’ipotesi di stato di necessità putativo, quando cioè il medico abbia agito con ragionevole convinzione dell’esistenza dello stato di necessità.

Al di fuori di siffatte situazioni di pericolo l’esplicito dissenso del paziente rende l’atto terapeutico un’indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali.

In tema di terapia chirurgica, il dovere di informazione che grava sul sanitario è funzionale al consapevole esercizio, da parte del paziente, del diritto alla scelta di sottoporsi o meno all’intervento terapeutico. In particolare, dalla peculiare natura del trattamento sanitario volontario scaturisce, al fine di una valida manifestazione di consenso da parte del paziente, la necessità che il professionista lo informi dei benefici, delle modalità di intervento, dell’eventuale possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili in sede post operatoria.

Peculiare è la questione del consenso informato nella chirurgia plastica, soprattutto quella estetica, informativo è particolarmente pregnante: qui infatti è richiesta la sussistenza di concrete possibilità, per il paziente, di conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico che si ripercuota favorevolmente sulla sua vita professionale o di relazione, con la conseguenza che la omissione di tale dovere di informazione genera responsabilità del medico, nel caso di verificazione dell’evento dannoso. Anche i gravi esiti cicatriziali residuati ad un intervento di chirurgia estetica eseguito in violazione del dovere di informazione da parte del sanitario possono integrare gi estremi della “alterazione anatomo-patologica dell’organismo” e, conseguentemente, l’elemento oggettivo del reato di lesioni colpose, allorquando tali esiti non siano riferibili ad interventi in cui le possibilità di simili conseguenze dannose erano già state preventivamente ed esaurientemente rappresentate al paziente dall’operatore.

In quali conseguenze legali si incorre se si è violato il dovere di informare il paziente e di acquisire il suo consenso all’intervento?

 

Il consenso informato ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale.

Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall’art. 32 Cost. (per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato u quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte, che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita.

Vediamo come i giudici siano arrivati, nel corso di un ventennio, a stabilire le linee guida operative.

La prima sentenza che si è soffermata sul tema fu quella divenuta nota come “sentenza Massimo”, dal nome dell’imputato (Cassazione penale 21 aprile 1992, n. 5639): la Corte di Cassazione affermò il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta; egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte !

La Corte aderiva alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto la antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo: se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico, e l’esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art. 32 Cost., comma 2), e che, a fortiori il reato sussiste ove l’esito sia sfavorevole

A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass.penale 9 marzo 2001, n. 28132), ove si è affermato che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessità, venga eseguita una operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne abbia determinato la morte, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè, per integrare quest’ultimo, si richiede che l’agente realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare una alterazione lesiva dell’integrità fisica

Nella sentenza Firenzani (Cass. penale, 11 luglio 2001, n. 35822) la Corte sottolinea che la “legittimità in sè dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico”, afferendo, esso, alla libertà morale del soggetto e dalla sua autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dall’art. 13 Cost..  Non sarebbe dunque configurabile, in capo al medico, un “diritto di curare” derivante dalla abilitazione all’esercizio della professione, giacchè essa, per potersi estrinsecare, comporta di regola il consenso del paziente.

La mancanza del consenso del malato (opportunamente informato), o la sua invalidità, determina l’arbitrarietà del trattamento: si avrà il delitto di violenza privata nel caso di trattamento terapeutico non chirurgico, mentre nel caso di intervento chirurgico si avrà il delitto di lesioni dolose perchè qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito “fausto”, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano una lesione (pensiamo all’incisione col bisturi, alla sutura e quant’altro). Si avranno invece lesioni colpose  qualora il sanitario, in assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso.

Con la sentenza Volterrani (Cass. Penale 29 maggio 2002, n. 26446), la Corte afferma il principio secondo il quale il medico è sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, ancorchè l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte. Qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non – nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale.

Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), il fatto che il consenso informato trovi il suo fondamento direttamente nella Costituzione, pone in luce la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale.

Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatoli e dal diritto alla salute inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che “giustifica” il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone.

Le Sezioni Unite della Cassazione penale, con la recente sentenza 21-01-2009 n. 2437, sono giunte ad una soluzione certamente più favorevole al medico.

Resta ferma la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere (violenza privata). Ossia: contro il dissenso o malgrado il dissenso non si può far nulla.

Il discorso è più complicato se sia mancato il consenso, o se si sia effettuato un intervento diverso da quello oggetto di consenso.

Le Sezioni Unite fanno un discorso molto ragionevole, pur lavorando su da dati tecnici di formulazione delle norme che crediamo di poter risparmiare ai nostri lettori.

Il punto è che una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare (quella del medico) e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel “male”.

La condotta del medico mira non solo alla buona riuscita dell’intervento, ma a realizzare un beneficio per la salute del paziente, che il vero bene da preservare.

L’atto operatorio in sè, dunque, rappresenta solo una “porzione” della condotta terapeutica, giacchè essa, anche se ha preso avvio con quell’atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze, soltanto in ragione degli esiti “conclusivi” che dall’intervento chirurgico sono scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente che a quell’atto si è – di regola volontariamente – sottoposto.

Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i correlativi profili di responsabilità, non potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le “lesioni” che esso “naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha determinato sul piano della valutazione complessiva della salute.

Il chirurgo, in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi teoriche di un intervento “coatto”; proprio perché la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà misurata la correttezza dell’intervento, in rapporto alle regole dell’arte.

ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia raggiunto positivamente tale effetto, dall’atto cosi eseguito non potrà dirsi derivata una malattia, giacché l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non soltanto non ha provocato – nel quadro generale della “salute” del paziente – una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso era affetto.

Oove il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 c.p., che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p.

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