LA PRESCRIZIONE DEL FARMACO: ASPETTI LEGALI. FOCUS SULLA PRESCRIZIONE OFF LABEL E SUL FARMACO GENERICO

 

 

 

 

 

 

 

 

L’utilizzo e la prescrizione di un farmaco costituiscono il più frequente atto medico, e non sorprende che i farmaci siano una delle principali cause di eventi avversi da cure mediche.

Tuttavia, se esiste una vasta casistica giurisprudenziale circa gli errori nella fase della diagnosi ed in quella del trattamento chirurgico, i giudici si sono pronunciati assai meno con riferimento alle patologie farmaco-correlate (drug related morbidity, DRM).

Secondo il Codice comunitario dei medicinali, la reazione avversa è la reazione, nociva e non intenzionale, ad un medicinale impiegato alle dosi normalmente somministrate all’uomo:

E’ chiaro come al medico non possano essere addebitati gli effetti avversi prevedibili (se previsti in concreto ed adeguatamente illustrati al paziente prima della terapia, nella fase di acquisizione del consenso) ed inevitabili ma necessari in una terapia correttamente impostata nel bilanciamento benefici/rischi: il medico invece sarà chiamato a rispondere delle lesioni cagionate al paziente per la scelta errata del farmaco o per l’utilizzo scorretto. Tutto ciò risponde alle stesse logiche che presiedono alla valutazione giuridica di qualsiasi altro atto medico.

 

Ciò che è peculiare del solo trattamento farmacologico è la particolare attenzione (con correlata assunzione di responsabilità) richiesta al medico laddove decida di utilizzare un farmaco off label.

Come è noto, di norma il farmaco deve esser utilizzato secondo le indicazioni terapeutiche per le quali è stata autorizzata la sua immissione in commercio.

Esiste però la possibilità di farne uso per trattare patologie diverse o con modalità di somministrazione o posologia differenti (in questo si sostanzia l’off label), ma dobbiamo sapere che per esercitare legittimamente questa pratica – che si ispira alla teorica della libertà di cura – la legge stabilisce precisi paletti.

Questi paletti vennero posti dal legislatore, colmando il precedente vuoto normativo, quando si trattò di disciplinare la sperimentazione ufficiale del c.d. Multitrattamento Di Bella: la sperimentazione ufficiale sul M.D.B. diede esito negativo, ma la norma che introdusse la sperimentazione è rimasto e costituisce oggi la disciplina dell’off label:  l’articolo 3 della legge 94 del 1998, la c.d Legge Di Bella, stabilisce le seguenti regole:

in singoli casi il medico – sotto la sua diretta responsabilità – può impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata (oppure riconosciuta agli effetti della 648 del 1996, di cui diremo), alle seguenti condizioni:

  1. previa informazione del paziente,
  2. previa acquisizione del consenso del paziente,
  3. se il medico ritenga, in base a dati documentabili , che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali on-label, ossia per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione,
  4. purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.

La legge dispone che in nessun caso il ricorso (anche improprio) del medico alla facoltà di curare con farmaci off label può costituire riconoscimento del diritto del paziente alla erogazione dei medicinali a carico del SSN, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648.

I giudici si sono occupati degli aspetti di responsabilità professionale connessi alla violazione della Legge Di Bella. Il caso più eclatante, che è anche assurto agli onori delle cronache, è il “caso Veronica (Cass. pen., sez. IV 30-09-2008 n. 37077). Una psichiatra veniva tratta a giudizio dinanzi al Tribunale di Pistoia per rispondere del reato di lesioni dolose aggravate in danno della paziente minorenne Veronica, per averle provocato una serie di disagi consistiti in sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità ed un episodio di allucinazioni, oltre che nella insorgenza di calcolosi renale, di disturbi oculari e di colecistopatia.

La dottoressa aveva diagnosticato una obesità pediatrica e per la cura aveva prescritto il topiramato (autorizzato per la sola epilessia, non per la cura dell’obesità) secondo modalità off label: l’idea era di sfruttare gli effetti collaterali anoressizzanti del farmaco somministrandolo in via sperimentale, senza una adeguata informazione ai genitori della ragazzina ai quali non erano stati illustrati i possibili effetti collaterali, con una posologia quasi decuplicata rispetto a quella di 25 mg raccomandata dal foglietto illustrativo, senza proporre alla paziente valide alternative terapeutiche (una dieta…).

Se il Tribunale condannò il medico per il delitto di lesioni dolose (attenzione: se ipoteticamente la paziente fosse deceduta, la pena sarebbe stata quella dell’ergastolo prevista per l’omicidio doloso !), la Corte d’Appello prima e la Corte di Cassazione poi ricondussero alla colpa la responsabilità del medico per le lesioni cagionate al paziente con inosservanza della legge 94.

 

Un secondo aspetto giuridico peculiare della prescrizione del farmaco riguarda le problematiche connesse alla possibilità che il paziente acquisti in farmacia un farmaco generico.

L’articolo 7 della Legge 405 del 2001 dispone che i medicinali a brevetto scaduto sono rimborsati al farmacista dal SSN fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente farmaco generico disponibile nel normale ciclo distributivo regionale.

La norma stabilisce poi che il medico ha la facoltà di apporre sulla ricetta l’indicazione “NON SOSTITUIBILE” in forza della quale il farmacista non può sostituire il farmaco prescritto dal medico, originatore o generico che sia.

Per parte sua il farmacista, in assenza della clausola di non-sostituibilità, dopo aver informato il cliente, gli deve consegnare il farmaco avente il prezzo più basso disponibile nel normale ciclo distributivo regionale.

Ovviamente, qualora vi sia la clausola di non-sostituibilità oppure l’assistito non accetti la sostituzione proposta dal farmacista, la differenza fra il prezzo più basso ed il prezzo del farmaco prescritto è a carico dell’assistito, con l’eccezione dei pensionati di guerra titolari di pensioni vitalizie.

La regola è semplice e cristallina: se al medico è attribuita una facoltà di scegliere per il paziente (meglio, con il paziente) il farmaco adatto alle sue esigenze terapeutiche, il professionista è tenuto a utilizzare questo strumento con scienza e coscienza sulla base dei dati scientifici che la legge presume egli conosca pienamente.

Occorre tenere presente che non necessariamente tutti i farmaci generici hanno le medesime indicazioni terapeutiche del corrispondente farmaco originatore, vuoi per scelta del produttore del generico, vuoi soprattutto per effetto della derivazione della scheda tecnica del generico dalla Autorità Regolatoria di un paese europeo diverso dall’Italia, dove per ipotesi l’originatore ha indicazioni terapeutiche diverse rispetto al suo corrispondente autorizzato al commercio dall’AIFA.

Inoltre, c’è il problema degli eccipienti, in quanto il generico può contenerne di diversi rispetto all’originatore.

Già solo con riferimento a queste due problematiche possono immaginarsi scenari di responsabilità per il medico prescrittore: poniamo che il medico prescriva un farmaco X senza apporre la clausola di non-sostituibilità, e poniamo che il farmacista (con l’accordo del paziente, che non ha alcuno strumento scientifico per dire la sua) sostituisca il farmaco X con il generico Y, che però non ha tra le indicazioni terapeutiche proprio quella patologia di cui soffre il paziente.

Si tratterebbe, ovviamente, di una sorta di off-label implicito, al di fuori di ogni possibilità per il medico di applicare i parametri stabiliti dalla legge Di Bella. Abbiamo visto con quanta severità i giudici puniscono il medico che cagioni danno ad un paziente in violazione della normativa sull’off-label.

E se il farmaco Y avesse tra gli eccipienti zucchero, glutine oppure olio di soia ed il paziente fosse diabetico, celiaco o allergico alla soia? Probabilmente, se quel paziente assumerà il farmaco per un tempo e con dosi sufficienti a far insorgere la reazione allergica, potrebbe sospettarsi un profilo di responsabilità del medico per non aver controllato che il medicinale assunto dal paziente non fosse immune da effetti collaterali dannosi prevedibili ed evitabili.

Purtroppo in Italia non esiste uno strumento conoscitivo analogo all’Orange Book statunitense, sicché il povero medico italiano nella pratica quotidiana ha enormi difficoltà a conoscere la scheda tecnica di tutti i farmaci generici in commercio se non addirittura, come credo, annega in una sostanziale impossibilità: tuttavia dobbiamo sapere che è illusorio pretendere di architettare una difesa efficace limitandosi a rilevare la difficoltà di conoscere le eventuali differenze di indicazione terapeutica tra originatori e generici e tra generici e generici.

Idem per quanto riguarda le differenze di eccipienti tra gli uni e gli altri, il che lascia intendere che il medico possa trovarsi privo di serie prospettive difensive da una accusa di malpractice del genere.

Altri aspetti di possibile responsabilità vengono alla luce se si considerano altre questioni connesse ad un uso del farmaco generico “scriteriato” (cioè, senza che il medico ne abbia un controllo scientifico totale).

Pensiamo alla possibilità che il paziente incorra in un continuo switch multiplo tra originatore, generico A, generico B, generico C è così via.  Posto che è insito nel concetto di bio-equivalenza lo scarto differenziale del +/- 20% di bio-disponibilità tra l’originatore ed ogni suo generico, se è vero che per definizione è scientificamente accettabile una differenza siffatta (pari alla variabilità interindividuale), è anche vero che a questo principio non è associata una piena proprietà commutativa: se tra l’originatore e il generico A c’è una differenza del + 20% e tra l’originatore e il generico B c’è una differenza del – 20%, la differenza tra il generico A ed il generico B sarà del 40%, ingenerandosi così un fenomeno di bio-creep potenzialmente pernicioso per il paziente.

E’ pur vero che differenze così ampie nella bio-disponibilità difficilmente si sono riscontrate negli studi effettuati per controllare il fenomeno, in quanto il più delle volte gli scarti sono risultati inferiori a quel famigerato 20%, tuttavia la questione può assumere particolare rilievo per i farmaci a ristretto indice terapeutico.

E’ poi possibile che una continua alterazione possa riverberarsi, soprattutto nei pazienti farmacologicamente poli-trattati, sullo steady-state nel quale per definizione l’organismo si viene a trovare dopo un certo periodo dall’assunzione del farmaco.

Altra questione sta nel fatto che normalmente negli studi di bio-equivalenza che conducono alla Autorizzazione all’Immissione in Commercio di un generico vengono considerati i parametri della C-Max e della AUC ma non anche quello della T-Max il che, per un medicinale nel quale il “fattore tempo” può essere importante (pensiamo ad un analgesico), potrebbe assumere rilevanza in un giudizio di responsabilità perché per la legge “curare tardi” non è molto diverso da “curare male”.

Su queste questioni non esiste ancora un orientamento giurisprudenziale, cioè non abbiamo precedenti in base ai quali valutare come un giudice potrebbe risolvere il problema di un paziente danneggiato da un farmaco sostituito dal farmacista in assenza dell’indicazione di non-sostituibilità. Possiamo però trarre principi ispiratori da casi analoghi.

Con la sentenza n. 8073 del 28 marzo 2008 la Corte di Cassazione ha risolto il seguente caso: i figli di una signora fanno causa ad un farmacista esponendo che la madre, dopo essersi sottoposta ad una delicata operazione chirurgica presso un ospedale, aveva trascorso un periodo di convalescenza presso un’altra clinica da dove era stata dimessa con la prescrizione di assumere, tra gli altri, un farmaco anticoagulante (il warfarin) in misura di “3/4 di compressa al dì”, mentre il medico di base, nel compilare la ricetta, le aveva invece erroneamente prescritto l’assunzione di 3 compresse al giorno. E’ necessario rilevare che la clinica non intendeva certo dire “tre o quattro compresse “ ma “tre quarti di compressa”?

Sta di fatto che , sfortuna nella sfortuna, il farmacista aveva apposto sulla confezione del farmaco la scritta “1+1+1”, così inducendo la paziente ad un uso in sovradosaggio del medicinale !

Ebbene, la Corte ha respinto la domanda di risarcimento avanzata dai parenti della defunta contro il farmacista perché 1) a fronte della precisa indicazione del medico, il farmacista non aveva certo il compito di verificare se la posologia del farmaco prescritto fosse effettivamente corrispondente alle particolari esigenze terapeutiche della paziente; 2) l’apposizione (meramente confermativa della dose prescritta dal medico) sulla scatola del farmaco della scritta “1+1+1” era irrilevante, poiché quel dosaggio ben poteva rientrare nell’ambito di una terapia di mantenimento, consentita nella misura massima di 15 milligrammi (corrispondenti, appunto, alle tre capsule).

Tutto bene per il farmacista, dunque, ma a noi interessa (anche) il medico: e purtroppo così la Corte conclude il suo ragionamento: “ è impredicabile una qualsiasi forma di responsabilità in capo al farmacista, inspiegabilmente evocato in un giudizio di responsabilità che pur avrebbe avuto un ben preciso destinatario, in persona del medico di base autore della erronea prescrizione farmacologia”.

Tutta questa problematica non è mutata, ma si è acuita, per effetto delle modifiche legislative intervenute nel 2012

Così è stata una prima volta innovata la procedura di prescrizione dei farmaci a brevetto scaduto, con una modifica non sconvolgente ma con mere specificazioni:

D.L . 24 gennaio 2012 n. 1: art 11, comma 12: Il medico, nel prescrivere un farmaco, e’ tenuto, sulla base della sua specifica competenza professionale, ad informare il paziente dell’eventuale presenza in commercio di medicinali aventi uguale composizione in principi attivi, nonche’ forma farmaceutica, via di somministrazione, modalita’ di rilascio e dosaggio unitario uguali. Il farmacista, qualora sulla ricetta non risulti apposta dal medico l’indicazione della non sostituibilita‘ del farmaco prescritto, dopo aver informato il cliente e salvo diversa richiesta di quest’ultimo, e’ tenuto a fornire il medicinale prescritto quando nessun medicinale fra quelli indicati nel primo periodo del presente comma abbia prezzo piu’ basso ovvero, in caso di esistenza in commercio di medicinali a minor prezzo rispetto a quello del medicinale prescritto, a fornire il medicinale avente prezzo piu’ basso.

Il cambiamento epocale è avvenuto invece pochi mesi dopo, quando l’ Articolo 15, comma 11-bis del DL n.95/2012 (convertito in legge 135 del 7/8/2012):

Il medico che curi un paziente,

1)per la prima volta, per una patologia cronica,

2)per un nuovo episodio di patologia non cronica
 per il cui trattamento sono disponibili piu’ medicinali equivalenti, e’ tenuto ad indicare nella ricetta la sola denominazione del principio attivo contenuto nel farmaco.
Il medico ha facolta’ di indicare altresi’ la denominazione di uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo; tale indicazione e’ vincolante per il farmacista ove in essa sia inserita, corredata obbligatoriamente di una sintetica motivazione, la clausola di non sostituibilita‘.
Con Nota del Ministero della Salute del 24/9/2012, si è chiarito chela ricetta risponde a legge se indica:
•il solo principio attivo, ovvero
•il principio attivo + il nome di un medicinale a base di tale principio attivo
E che non è conforme a legge la ricetta che indichi soltanto il nome di uno specifico medicinale.
Inoltre, il Ministero afferma che la clausola di non-sostituibilità:
•deve essere obbligatoriamente accompagnata da una sintetica motivazione.
•non può fare riferimento alla presunta o dichiarata volontà del paziente
•non può riferirsi, tautologicamente, a generiche valutazioni di ordine clinico o sanitario
•deve succintamente indicare le specifiche e documentate ragioni che rendono necessaria la somministrazione al paziente di quel determinato medicinale, anziché un equivalente (ad esempio, accertata intolleranza del paziente a determinate sostanze comprese fra gli eccipienti di altri medicinali a base dello stesso principio attivo).
I medici debbono ora fare i conti con una disciplina radicalmente nuova, basata su principi prima scosciuti.
 Val la pena rammentare come, neppure un anno prima della modifica legislativa, il Consiglio di Stato avesse espresso un orientamento opposto:

con decisione n.5790 del 27 ottobre 2011 (in una causa nella quale si discuteva della legittimtà del Regolamento della Regione Puglia n. 15/07, per cui la prescrizione dei farmaci concedibili avrebbe dovuto riportare il solo principio attivo), i giudici amministrativi sostennero che “il medico non puo’ essere obbligato a indicare nella prescrizione esclusivamente il nome del principio attivo e quindi non puo’ essere rimessa al farmacista la scelta concreta del farmaco da somministrare, non avendo questo ultimo né la competenza tecnica, né la conoscenza del quadro clinico dell’assistito.

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