DANNI ALLA PERSONA DA REATO E TERMINI DI PRESCRIZIONE: RAPPORTI TRA AZIONE PENALE E AZIONE CIVILE

 

DANNI ALLA PERSONA DA REATO E TERMINI DI PRESCRIZIONE:

RAPPORTI TRA AZIONE PENALE E AZIONE CIVILE

 

Sommario. 5.1. . Il danno alla persona nelle ipotesi di reato: l’art. 2947, 3° comma, c.c. 5.2. Azione penale ed azione civile: effetti del procedimento penale sul decorso dell’azione risarcitoria.  5.3 “Se il fatto è considerato dalla legge come reato”: applicabilità della norma nell’ipotesi di fatto-reato accertato incidentalmente dal giudice civile. 5.4 “Se per il reato è previsto un termine più lungo”: i termini di prescrizione nell’azione penale e le considerazioni in sede di giudizio civile per il computo dei termini.

Scheda di sintesi

Numerose norme incriminatrici del codice penale si prestano a coprire fatti illeciti in cui la vittima patisca un danno alla persona.

Se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile, sia extracontrattuale sia contrattuale.

La mancanza di una pronuncia del giudice penale affermativa di responsabilità non impedisce al giudice civile di procedere autonomamente all’accertamento incidentale della sussistenza degli elementi costitutivi di un reato.

La costituzione di parte ha effetto interruttivo della prescrizione, non così la querela.

Quanto alla semplice pendenza del procedimento penale, cui la giurisprudenza non ricollega effetti interruttivi, si espongono rilievi critici.

Il periodo di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere dalla data di scadenza del termine per la proposizione della querela, anche se questa non sia stata sporta.

Alcuni problemi operativi per la concreta applicazione del terzo comma dell’art 2947: le eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato non rilevano ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento; se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o se è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (due o cinque anni); il problema delle vittime di rimbalzo.


5.1. Il danno alla persona nelle ipotesi di reato: l’art. 2947, 3° comma, c.c. 5

Nelle ipotesi in cui il fatto illecito presenti tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie di reato occorre fare riferimento a quanto statuito dal comma terzo dell’art. 2947 c.c.[1]. Questa norma prevede che, “se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati da primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile[2].

La finalità della norma – sull’applicazione della quale sono sorte diverse questioni di interpretazione, derivanti per lo più dalla questione generale dei rapporti fra azione civile ed azione penale – è sostanzialmente quella di instaurare un collegamento con la normativa penale in tutti quei casi in cui la tutela civile venga ad incrociarsi, anche solo in astratto, con la protezione che l’ordinamento penale accorda dinanzi a determinate fattispecie: si tratta dunque di una “norma ponte[3] che è ispirata a garantire alla vittima dell’illecito civile la medesima copertura temporale per l’intrapresa dell’azione risarcitoria che è garantita all’organo della pubblica accusa per l’intrapresa dell’azione penale.

Questa essendo la ratio ispiratrice della norma, è chiaro che essa si riferisca alla sola ipotesi in cui per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella del diritto al risarcimento perché, qualora la prescrizione del reato sia uguale o più breve di quella fissata per il diritto al risarcimento, il diritto medesimo è soggetto alla prescrizione fissata dai primi due commi dell’art. 2947 c.c.[4] .

E’ interessante notare come la giurisprudenza applichi la norma sia al danno da fatto illecito extracontrattuale che al danno da “fatto illecito” contrattuale, purché sia possibile configurare la concreta fattispecie come reato, desumendo tale constatazione “dalla lettera della disposizione predetta allorché la stessa contiene l’affermazione: “in ogni caso” il che fa ovviamente riferimento a qualsiasi comportamento che cagioni ad altri un danno ingiusto derivante, si ripete, sia dalla responsabilità contrattuale che da quella precontrattuale od extracontrattuale. ciò premesso, essendovi, in concreto, sentenza penale passata in cosa giudicata deve trovare applicazione la seconda parte del terzo comma dell’art. 2947 c.c. con la conseguenza che la prescrizione inizia a decorrere dalla data in cui la sentenza penale e’ divenuta irrevocabile e per quanto affermatosi dinanzi sia che si faccia riferimento a fatto illecito derivante da responsabilità contrattuale che a fatto illecito derivante da responsabilità extra o precontrattuale purché, si ribadisce, il fatto stesso posto a base dell’azione civile sia considerato reato[5].

 

5.2. Azione penale ed azione civile: effetti del procedimento penale sul decorso dell’azione risarcitoria.

Il sistema vigente sotto il codice di procedura penale del 1930 e di quello di procedura civile nella formulazione precedente la riforma degli anni ’90 era caratterizzato dal rapporto di pregiudizialità necessaria tra giudizio penale e giudizio civile (art. 3 c.p.p. e art 295 c.p.c.), dell’efficacia preclusiva ai fini civili della decisione che pone termine al giudizio penale (art. 25 c.p.p.) e dall’autorità del giudicato penale nel giudizio di danno “quanto alla responsabilità del condannato” (art. 27 c.p.p). In un sistema siffatto erano eccezionali i casi in cui, in virtù del principio dell’unità della funzione giurisdizionale, il giudice civile poteva accertare l’esistenza del fatto penalmente rilevante, ed erano casi condizionati dal presupposto negativo che la relativa questione non avesse costituito oggetto di indagine da parte del giudice penale per estinzione del reato e per altra causa.

Oggi però le cose stanno diversamente.

L’art. 75 del c.p.p. (rubricato “Rapporti tra azione civile e azione penale”) del 1989 ha consacrato il principio di parità delle giurisdizioni facendo divenire fisiologica la possibilità di giudicati contrastanti in relazione al medesimo fatto ai diversi effetti civili e penali, così disponendo: “1. L’azione civile  proposta davanti al giudice civile può essere trasferita [6] nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata  pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L’esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio [7] ; il giudice penale provvede anche sulle spese del procedimento civile.  2. L’azione civile prosegue in sede civile se non e’ trasferita nel processo penale o e’ stata iniziata quando non e’ piu’ ammessa la costituzione di parte civile.  3. Se l’azione e’ proposta  in  sede  civile  nei  confronti dell’imputato  dopo  la  costituzione  di  parte  civile nel processo penale o dopo la sentenza  penale di primo grado, il processo civile e’ sospeso  fino alla pronuncia della sentenza penale non piu’ soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge

Se a ciò aggiungiamo il nuovo testo dell’art. 295 c.p.c. derivante dalla modifica introdotta dall’art. 35 della legge n. 353 del 1990 (Sospensione necessaria. “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”), possiamo dire che al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale si è sostituito quello dell’autonomia e separazione dei giudizi.

E’ per tal ragione che la mancanza di una pronuncia del giudice penale affermativa di responsabilità non impedisce al giudice civile di procedere autonomamente all’accertamento incidentale della sussistenza, nella fattispecie posta al suo esame, degli elementi costitutivi di un reato[8].

Sino a poco fa la giurisprudenza era uniformemente orientata nel senso che l’accertamento da parte del giudice civile dovesse essere condotto secondo la legge penale ed avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi, oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione. Ciò peraltro non ha mai implicato che il fatto illecito dovesse integrare in concreto un reato punibile per il concorso di tutti gli elementi rilevanti per la legge penale: è infatti sufficiente che quel fatto rivesta astrattamente le spoglie della corrispondente fattispecie criminosa tipica e che pertanto, in quanto tale, sia idoneo a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice; per tal ragione è, per esempio, riconosciuta la sussistenza dell’ipotesi di reato anche nel caso in cui l’autore non risulti concretamente perseguibile in ragione della sussistenza di una causa di non punibilità [9].

In ogni caso oggi, per effetto di un recente revirement della Cassazione, avallato con autorità dalla Consulta, è venuto ad attenuarsi il rigore con cui il giudice civile procede all’accertamento incidentale del reato quando si tratti di applicare la tutela civile al danneggiato.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza 12 maggio 2003 n. 7282 “Alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e 185 CP. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nei casi di cui all’art. 2054 CC, debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”.

Come noto, per l’orientamento giurisprudenziale fino a quel momento dominante, si doveva escludere la risarcibilità del danno non patrimoniale, nella corrente (e restrittiva) accezione di danno morale subiettivo, quando la responsabilità venisse affermata non in base ad un accertamento concreto dell’elemento psicologico (la colpa) ma in base ad una presunzione quale quella stabilita dall’art. 2054 CC.

Il vecchio indirizzo, come ricorda al Corte, si era “formato nella vigenza del codice di procedura penale del 1930, caratterizzato dal rapporto di pregiudizialità necessaria tra giudizio penale e giudizio civile (art. 3 c.p.p. e art 295 c.p.c.) in caso di corresponsabilità di procedimenti, dell’efficacia preclusiva ai fini civili della decisione che pone termine al giudizio penale ( art. 25 c.p.p.) e dalla autorità del giudicato penale nel giudizio di danno anche “quanto alla responsabilità del condannato” (art. 27 c.p.p). In un sistema siffatto, erano eccezionali i casi in cui, in virtù del principio dell’unità della funzione giurisdizionale, il giudice civile poteva accertare l’esistenza del fatto penalmente rilevante: casi tutti condizionati dal presupposto negativo che la relativa questione non avesse costituito oggetto di indagine da parte del giudice penale per estinzione del reato e per altra causa” mentre oggi “… mutati i rapporti tra processo civile e penale a seguito dell’introduzione del nuovo codice di procedura penale (entrato in vigore nell’ottobre del 1989), e venuta meno la preminenza della giurisdizione penale su quella civile (artt. 75 e 652 c.p.p. vigente), tanto che è possibile che gli esiti siano nelle diverse sedi addirittura contrastanti in ordine all’apprezzamento di un medesimo fatto, la correttezza dell’interpretazione sinora data dall’art. 2059 in relazione all’art. 285 c.p. va sottoposta a verifica, onde vagliarne la persistente validità.”

Scopo dell’inversione dell’onere della prova è uniformare la posizione del danneggiato che non sia in grado di offrirla e quella del danneggiato che invece lo sia, rendendole paritarie addossando al danneggiante l’onere della prova liberatoria e quindi ponendogli a carico una presunzione di colpa. A parere della Corte non è giusto che il danneggiato possa o meno ottenere il risarcimento del danno morale a seconda che abbia o meno dato la prova di una fatto (la colpa del danneggiante) che non gli compete e la cui mancanza va invece provata dall’altra parte.

Non c’è dunque differenza, conclude la S.C., tra il caso in cui il danneggiato provi la colpa (di talché il fatto integra reato ed il danno morale è certamente risarcibile) ed il caso in cui il danneggiante non riesca a  superare la presunzione di colpa: in entrambi i casi agli effetti civile (mai a quelli penali) la colpa sussiste ed il fatto senz’altro corrisponde alla fattispecie astretta di reato.

Sugli echi della sentenza del maggio 2003, l’11 luglio 2003 viene depositata dalla Corte Costituzionale l’attesissima sentenza (la n. 233) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2059 CC, promosso con ordinanza del 20 maggio 2002 dal Tribunale di Roma [10] in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. Il Tribunale aveva sollevato due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2059, partendo dal presupposto interpretativo secondo cui l’ambito di applicazione dell’art. 2059 copre l’intera area del danno non patrimoniale, restando perciò preclusa la possibilità di risarcire il pregiudizio alla serenità morale, derivante dalla perdita di un congiunto per fatto illecito altrui, mediante il ricorso all’art. 2043, in combinato disposto con l’art. 2 Cost. La prima aveva ad oggetto – con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. – la previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge”. Siffatta limitazione risarcitoria sarebbe – ad avviso del rimettente – lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., nonché fonte di ingiustificate disparità di trattamento tra danneggiati. Avrebbe inoltre dato causa – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi (è chiaro che il Tribunale di Roma in persona del giudice Rossetti fa riferimento alla teorica del danno esistenziale) – ad ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza.

La seconda questione sollevata in subordine dal Tribunale riguardava il sospetto d’incostituzionalità rispetto all’art. 3 Cost del 2059 nella parte in cui escluderebbe la risarcibilità del danno morale nei casi di colpa presunta.

La Consulta è partita dal constatare che il “diritto vivente” è recentemente stato oggetto di vari ripensamenti, ed ha fatto propri i recenti revirements della Cassazione, quello sul danno morale nei casi di colpa presunta, e quello (espresso dalle “sentenze gemelle” 8827 e 8828) con cui si è superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale ex art. 2059 CC si identificherebbe con il solo danno morale subiettivo, proponendo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 tesa a ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona (sia il danno morale soggettivo sia il danno biologico sia il danno esistenziale – così lo definisce anche la Consulta – derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona).

Per la Corte, stante la nuova lettura costituzionalizzata dell’art. 2059, non v’è alcun ostacolo all’accoglimento di una interpretazione opposta a quella da cui muoveva il Tribunale di Roma nel sollevare il dubbio di costituzionalità. Il punto è che il riferimento al “reato” contenuto nell’art. 185 CP non postula più, come si riteneva in passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge.

Per tali motivi la Corte ha esaminato prioritariamente la questione subordinata dichiarandola non fondata, e concludendo che il 2059 deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge. Ciò fatto, la Corte ritiene “in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale originato da una contraria lettura della norma, mentre la concreta possibilità di una tutela risarcitoria dei danneggiati nel giudizio principale rende evidentemente priva di rilevanza e, pertanto, inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., prospettata dal medesimo rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. e diretta a censurare la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi stabiliti dalla legge”.

Dunque oggi il giudice civile può accertare incidentalmente avvalendosi di istituti giuridici propri del settore civilistico, indipendentemente dall’andamento del processo penale, la sussistenza astratta di un reato al fine di risarcire il danno non patrimoniale. E con riferimento alla prescrizione ?

La giurisprudenza della Cassazione precedente il revirement del 2003 [11] è nel senso può applicarsi all’azione di risarcimento il più lungo termine di prescrizione previsto per il reato a condizione che, ove il giudizio penale non sia stato promosso, il giudice civile accerti, incidenter tantum, la sussistenza del reato in tutti i suoi elementi costitutivi di natura oggettiva e soggettiva: l’indagine sulla sussistenza dell’elemento soggettivo deve essere compiuta tenendo conto della differente intensità tra la colpa penale e quella (più ampia) considerata dall’art. 2054 c.c “che si estende fino agli estremi limiti possibili della diligenza”, con la conseguente impossibilità di affermare la sussistenza della prima in virtù delle presunzioni di colpa stabilite da tale norma.

Ci pare però che oggi la questione non possa più esser risolta così, essendosi sgretolato il fondamento giuridico che reggeva la giurisprudenza dell’irrisarcibilità del danno morale nei casi di colpa presunta ex art 2054 che, a ben vedere  è lo stesso che regge l’orientamento sulla prescrizione appena ricordato: se oggi è possibile risarcire il danno morale quando la colpa del danneggiante sia provata in sede civile sulla base di un meccanismo di inversione dell’onere probatorio e/o di una presunzione, laddove il fatto sia riconducibile ad una fattispecie criminosa, non dovrebbero esservi difficoltà ad applicare i termini prescrizionali penalistici ai sensi del comma terzo dell’art. 2947.

Indaghiamo ora se gli atti che la persona offesa compie nel processo penale abbiano rilevanza rispetto alla prescrizione civile.

La denuncia o querela non è annoverata nella categoria degli atti cui l’art. 2943 c.c. attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione [12].

La costituzione di parte civile da parte del titolare del diritto al risarcimento del danno, sia questi la vittima primaria o un congiunto, ha invece il tipico effetto interruttivo della prescrizione [13]: essa infatti rientra fra gli atti interruttivi considerati dall’art. 2943 c.c. e, come ogni altra domanda giudiziale, produce un effetto interruttivo permanente per tutta la durata del processo nei confronti tanto di coloro contro i quali venne rivolta espressamente la costituzione, quanto di tutti i coobbligati solidali ancorchè rimasti estranei al processo penale. Tale effetto interruttivo perdura finchè non venga definito, con sentenza irrevocabile, il giudizio penale nel corso del quale sia avvenuta la costituzione di parte civile [14].

Occorre invece evidenziare che la mera pendenza di un procedimento penale non interrompe né sospende la prescrizione, posto che tale circostanza non rientra tra le cause di sospensione della prescrizione tassativamente indicate dagli artt. 2941-2942 c.c. [15].

Ciò trova spiegazione nel fatto che durante la fase del procedimento (quella che precede il processo, che inizia con la promozione dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero) il danneggiato è la “persona offesa” che, pur potendo esercitare i limitati diritti che il codice di rito le concede, non è ancora parte processuale: l’offeso, come noto, diverrà parte solo se e quando si sarà costituto parte civile, il che non potrà avvenire che all’udienza preliminare o, per i reati cui si applica il rito della citazione diretta a giudizio da parte del PM, nella fase iniziale dell’udienza dibattimentale. Ebbene, se la costituzione di parte civile è l’omologo dell’atto introduttivo del giudizio civile e quindi necessariamente deve condividere con questa l’efficacia interruttiva e sospensiva della prescrizione civile, la pendenza del procedimento penale nella fase che precede quella in cui vi è una parte civile validamente costituita non può avere alcun effetto sul decorso della prescrizione, non esistendo (ancora) il soggetto legittimato a porre in essere un atto interruttivo e, conseguentemente, non potendo esistere tout court alcun atto interruttivo.

La questione però diventa spinosa se si pone mente al fatto che il danneggiato, la persona offesa che magari abbia dato impulso al procedimento sporgendo querela o denunciando i fatti all’autorità inquirente, per tutta la durata delle indagini preliminari normalmente non farà altro che attenderne l’epilogo o, al massimo, collaborerà col P.M. rendendo la propria deposizione quale persona informata sui fatti, producendo documenti, indicando fonti ed elementi di prova magari acquisiti con l’attività investigativa del proprio difensore: ma tutta questa attività, così come l’inerzia che assai più spesso caratterizzerà la figura della persona offesa in questa fase, non sarà idonea a spiegare alcun effetto sul decorso del tempo agli effetti civilistici.

Non siamo convinti che risponda a “giustizia” privare di qualunque rilevanza per il tempo civilistico una fase importante come quella delle indagini preliminari, dalle quali il danneggiato può ottenere elementi tali da chiarirgli se vi sia un fatto illecito, chi ne sia il responsabile, come si sia verificato: se solo con la chiusura delle indagini il danneggiato raggiunge la piena contezza dell’esser stato vittima del fatto illecito, dovremmo dire che solo da quel momento egli diviene in grado di azionare il proprio diritto al risarcimento, il che significa che quello sarà il momento coincidente con il dies a quo per il decorso della prescrizione.

Riteniamo che non sia corretto delineare come regola generale che la prescrizione non possa decorrere durante la fase delle I.P. e non è nostra intenzione sostenere una simile interpretazione, ma ci pare che in taluni casi sia possibile e necessario scomputare dal tempo della prescrizione quello pari alla fase del procedimento penale durante la quale il danneggiato ha dovuto attendere l’esito dell’investigazione, e tali casi saranno quelli nei quali il danneggiato si sia trovato nella condizione di poter agire civilisticamente solo dopo che il Pubblico Ministero abbia svolto la propria attività d’indagine e gliene abbia fornito i risultati, dandogli tutte le tessere del mosaico di cui si compone un fatto illecito complesso.

Ragionare diversamente negando qualsiasi rilevanza alla durata delle indagini preliminari rispetto al problema del decorso del tempo prescrizionale significa ignorare ingiustamente che in quei mesi (almeno sei, cui aggiungere eventuali proroghe), in cui il danneggiato a rigore non ha il diritto di sapere che cosa l’autorità inquirente stia facendo a sua tutela, egli può trovarsi in una condizione in cui non sappia ancora neppure chi sia il responsabile del fatto illecito.

Pensiamo ai casi più banali e comuni. Pensiamo ad un sinistro stradale in cui l’investitore del pedone sia fuggito e venga rintracciato dopo una laboriosa indagine della polizia giudiziaria e del P.M., magari dopo parecchi mesi: ebbene, sarebbe forse corretto ritenere che per quel pedone, il quale ha sporto querela contro ignoti per il reato di lesioni colpose, decorra la prescrizione dell’azione civile di risarcimento durante i mesi in cui si sta indagano per individuare l’ignoto colpevole ?

Non dobbiamo poi trascurare che lo stesso termine per proporre querela (di novanta giorni) comincia a decorrere dal momento in cui il titolare del relativo diritto si sia reso conto di tutte le connotazioni oggettive e soggettive necessarie per l’integrazione del reato, poiché per “notizia del fatto che costituisce reato” indicata dal comma 1 dell’art. 124 c.p., è da intendere la conoscenza certa [16] che del fatto delittuoso si siano verificati i requisiti costitutivi, in modo che l’offeso abbia avuto nozione di tutti gli elementi necessari per proporre fondatamente istanza di punizione [17]. Ciò implica che, nel caso appena esemplificato, il pedone potrebbe scegliere di sporgere subito querela contro ignoti lasciano al P.M. il compito di individuare il reo, oppure di avviare indagini private finalizzate a rintracciare l’investitore onde querelarlo: ebbene, il tempo che il pedone impieghi per effettuare tali indagini finalizzate ad accumulare la conoscenza di tutte le “connotazioni oggettive e soggettive necessarie per l’integrazione del reato” non andrà a suo detrimento, con riferimento al termine per querelare. Perché non può essere così anche per il termine della prescrizione civile ?

Chiudiamo l’argomento osservando che almeno un punto fermo esiste: qualora l’illecito civile costituisca anche un reato perseguibile a querela, il periodo di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere dalla data di scadenza del termine per la proposizione della querela.

Sotto la vigenza del vecchio codice di rito, la giurisprudenza [18] riteneva che laddove fosse stato pronunciato decreto di archiviazione per mancanza di querela, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno cominciasse comunque a decorrere dalla data del provvedimento di archiviazione.  Oggi, per stabilire il dies a quo ove la querela non sia stata proposta ed indipendentemente dall’inizio di un procedimento penale, le Sezioni Unite [19] insegnano che “contrariamente all’opinione dominante, che ha individuato tale termine nella data in cui è stato commesso il fatto, anche alla luce della norma di cui all’art. 2935 c.c. secondo il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (Cass. 7 ottobre 1998 n. 9910), sembra più coerente con la ratio della disposizione del terzo comma dell’art. 2947 c.c. ritenere che l’inizio della prescrizione coincida con la scadenza del termine utile per la presentazione della querela, quando cioè diviene certa la improponibilità dell’azione penale. Ed in questo senso il principio giuridico suesposto va integrato, stabilendo che la prescrizione biennale decorre dalla scadenza del termine per proporre querela.”

In conclusione, non è condivisibile la posizione di chi sostenga tout court l’irrilevanza della pendenza del procedimento penale ma crediamo che si debba invece fare corretta applicazione, caso per caso, del principio espresso dall’art. 2935 ed ammettere che, talvolta, la pendenza penale (almeno fino al momento della disclosure probatoria da parte del P.M. con l’atto di chiusura delle I.P.) possa di per sé costituire un impedimento legale al decorso del termine prescrizionale.

 

5.3 “Se il fatto è considerato dalla legge come reato”: applicabilità della norma nell’ipotesi di fatto-reato accertato incidentalmente dal giudice civile.

L’applicazione dell’art. 2947 comma terzo c.c. è condizionata dalla circostanza che il fatto illecito sia qualificabile come “reato”.

Di fronte ad un fatto illecito (doloso o colposo) che abbia cagionato danno alla persona, l’ordinamento predispone non solo il mezzo di tutela civilistico ma anche la perseguibilità del reo in sede penale. Il codice prevede infatti una serie di ipotesi di reato tale da coprire con l’area della sanzionabilità penale pressochè tute le aggressioni al valore della persona.

Reato può sussistere tuttavia non solo nel caso di compimento di un fatto illecito, ma talvolta anche nel caso di inadempimento contrattuale da parte del contraente a carico del quale l’ordinamento (vuoi per clausola negoziale vuoi per disposizione di legge) ponga obblighi di tutela di uno dei valori personali dell’altro contraente, quale il diritto alla salute: ciò accade dove sia dedotta in contratto una prestazione che attiene ad uno di tali beni, com’è il caso del contratto di cura che lega paziente e medico ed ospedale che ad oggetto il bene-salute, o del contratto di lavoro nell’ambito del quale l’art 2087 CC pone a carico del datore l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore.

Si tratta, normalmente, di quegli stessi casi in cui è pacificamente ammissibile il cumulo della responsabilità contrattuale con quella aquiliana. In questi casi, laddove l’inadempimento sia stato tale da causare un danno alla persona e sussistano e siano provati senza applicazione delle inversioni e presunzioni tipiche della responsabilità contrattuale tutti gli elementi costitutivi d’una fattispecie criminosa (elemento oggettivo della condotta, nesso di causa, elemento soggettivo del dolo o della colpa), vi sarà spazio affinchè il giudice civile accerti incidentalmente il reato. Ciò però non sarà circostanza tale da consentire in un caso di responsabilità contrattuale – salvo che l’attore abbia invocato il cumulo di responsabilità – l’applicazione del terzo comma del 2947 che si riferisce esclusivamente al “fatto illecito”. D’altra parte, posto che il termine generale ordinario di prescrizione dei diritti connessi alla responsabilità contrattuale è di dieci anni ossia doppio di quello ordinario per i fati illeciti e quintuplo di quelli da circolazione stradale, non vi sono ragioni per lamentare de iure condendo la disparità di trattamento.

Numerose norme incriminatrici del codice penale si prestano a coprire fati illeciti in cui la vittima patisca un danno alla persona.

Abbiamo i delitti contro la famiglia, come l’art 570 c.p., Violazione degli obblighi di assistenza familiare,l’art. 571, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, l’art. 572, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli.

Vi sono poi i delitti contro la vita e l’incolumità individuale: dall’omicidio (nelle varie forme dell’omicidio doloso punito dagli artt 575-577, dell’infanticidio in  condizioni di abbandono materiale e morale punito dall’art. 578, dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579, dell’istigazione o aiuto al suicidio ex art. 580, dell’omicidio preterintenzionale ex art. 584, dell’omicidio colposo ex art 589), alle varie forme di lesioni (le percosse di cui all’art 581, dalle lesioni dolose ex artt 582-683 e quelle colpose di cui all’art. 590).

Pensiamo ai delitti contro l’onore come l’ingiuria (art 594) e la diffamazione (art 595), ed ai delitti contro la libertà individuale e la personalità individuale come la riduzione in schiavitù (art. 600) il sequestro di persona (art 605), le varie forme  di violenza sessuale (609bis e seguenti), ed ancora ai delitti contro la libertà morale come la violenza privata (art. 610) la minaccia (art 612). l’interferenza illecita nella vita privata (615bis), la violazione di domicilio (614) e di corrispondenza (616).

Ricordiamo i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone, come la rapina (art. 628) e l’estorsione (art 629) il sequestro di persona a scopo di estorsione (art 630), e contravvenzioni come la molestia o disturbo alle persone (art 660).

Non è poi da escludersi, anzi normalmente accade, che possa prodursi un danno alla persona anche in caso di commissione di delitti contro il patrimonio, come il furto o la truffa, o contro l’amministrazione della giustizia come la calunnia.

Uno dei problemi che periodicamente torna alla ribalta è se, affinché il giudice civile possa accertare incidentalmente la sussistenza del reato ai fini dell’applicazione della norma che estende i termini prescrizionali a quelli previsti dalla legge penale, è se, laddove si tratti di reato perseguibile a querela, sia necessario che essa sia stata proposta e se la mancata proposizione della querela comporti l’impossibilità di applicare il terzo comma dell’art. 2947 c.c.

Al riguardo si fronteggiano in giurisprudenza due posizioni, una favorevole all’applicazione dei termini prescrizionali penali indipendentemente dall’avvenuto promovimento del procedimento penale, l’altra più restrittiva in base alla quale la proposizione della querela è necessaria.

Il primo orientamento della Cassazione, per molto tempo prevalente, afferma che malgrado il giudizio penale non sia stato promosso e non sia più promuovibile, l’eventuale più lunga prescrizione del reato si applica anche all’azione civile di risarcimento dei danni “a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto – reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto[20]. A sostegno di tale interpretazione, vi è il dato letterale della norma che parla di “fatto … considerato dalla legge come reato“, rinviando ad una fattispecie astrattamente criminosa e non anche concretamente perseguibile, e la – secondo noi fondamentale – considerazione che la querela non è una condizione di punibilità del reato ma di procedibilità dell’azione penale (art. 336 c.p.p.), sicché la sua mancanza non attiene all’esistenza ontologica del reato stesso. Inoltre il terzo comma del 2947 non prevede la mancanza di querela tra le situazioni individuate come fatti condizionanti il decorso del termine prescrizionale.

Il secondo orientamento, fatto recentemente proprio dalle Sezioni Unite [21], è nel senso che se non sia stata proposta querela trovi applicazione, ancorché per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella civile, la prescrizione biennale di cui al comma 2 dell’art. 2947 c.c., decorrente dalla scadenza del termine utile per la presentazione della querela medesima. L’orientamento si fonda sull’individuazione della ratio del comma in esame che riposa sulla “esigenza di tutela dell’affidamento del danneggiato nella conservazione del diritto al risarcimento per la prevedibile durata della pretesa punitiva dello Stato[22] :”la ragione giustificatrice dell’”aggancio” del termine prescrizionale dell’azione civile a quello eventualmente più lungo di prescrizione dell’azione penale va individuata nell’esigenza di evitare che l’autore di un reato, dichiarato responsabile e condannato in sede penale, resti esente dall’obbligo di risarcimento verso la vittima – il cui diritto rimarrebbe vanificato – in conseguenza dell’avvenuta più breve prescrizione civile durante il tempo necessario per l’accertamento della responsabilità penale, o, comunque, di impedire che l’azione di risarcimento del danno si estingua quando è ancora possibile che l’autore del fatto sia perseguito penalmente[23]. Questa essendo la ratio dell’eccezionale assimilazione della prescrizione civile a quella eventualmente più lunga prevista per il reato, secondo le S.U. è di tutta evidenza che l’esigenza di parificare i termini prescrizionali venga meno nell’ipotesi in cui la querela, necessaria per la perseguibilità concreta dell’illecito penale, non sia stata proposta perché, non essendo mai stato avviato un procedimento, è escluso il rischio che il diritto risarcitorio del soggetto danneggiato possa estinguersi, medio tempore, per effetto della normale prescrizione biennale.

Inoltre, afferma la Corte che non avrebbe senso accordare il favore di un più lungo termine di prescrizione ad un danneggiato che, non avendo sporto querela, dimostri di non aver interesse alla tutela che la legge penale potrebbe garantirgli, il che peraltro si rivela in pieno accordo con il principio di separazione delle giurisdizioni. Né d’altra parte – stante il disposto della seconda parte del comma che recita “tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione … il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati nei primi due commi…” – vi sarebbe alcuna ragione per trattare differentemente l’ipotesi di estinzione per remissione della querela (art. 152 c.p.) e, quindi, di sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale, a quella di mancanza della querela, cioé di improcedibilità originaria

La scelta delle Sezioni Unite non ci sembra condivisibile, perché svuota di effettività il principio dell’autonomia e parità delle giurisdizioni, perché precludere al giudice civile – in forza della sola mancanza di querela – di accertare se nel fatto illecito sottoposto al suo esame vi siano gli estremi per individuare la sussistenza di un reato significa di fatto tornare al sistema della pregiudizialità penale.

Se al giudice civile è consentito l’accertamento incidentale, esso dovrebbe avere ad oggetto i soli elementi costitutivi necessari (condotta – nesso di causa –-evento) ed accidentali (circostanze) del reato, e non certo questioni di natura processuale che nulla hanno a che vedere con l’esistenza ontologica di un crimine: se alle cure del giudice civile viene portato un caso di lesioni e se in quel caso egli ravvisa il reato di cui all’art. 582 o 590 c.p. completo di tutti i suoi elementi, nessuna incidenza ha la circostanza che tale reato sia stato denunciato o meno dalla persona offesa, perché ciò attiene solo alla punibilità del reo. Ragionare diversamente, implica che una mera condizione di procedibilità come la querela venga fatta forzatamente rientrare tra gli elementi costitutivi del reato.

A sostegno della posizione scartata dalle Sezioni Unite stanno anche ragioni di politica del diritto e di economia processuale: imporre al danneggiato di sporgere querela sempre e comunque per evitare di incappare nella breve prescrizione civile (pensiamo soprattutto nei casi di sinistri stradali) significa favorire l’intasamento di già sovraccariche Procure della Repubblica e quindi degli organi giudicanti penali, in piena antitesi con le esigenze di deflazione del processo penale e di depenalizzazione cui il legislatore tende inequivocabilmente.

5.4 “Se per il reato è previsto un termine più lungo”: i termini di prescrizione nell’azione penale e le considerazioni in sede di giudizio civile per il computo dei termini.

 

Anche nel diritto penale si tende a prospettare la prescrizione – in forza della quale il decorso del tempo senza che si sia pervenuti ad un definitivo accertamento di responsabilità con sentenza irrevocabile di condanna comporta l’estinzione del reato – come istituto giuridico di natura sostanziale più che processuale: il trascorrere del tempo non estingue l’azione penale ma elimina la punibilità del reato.

Il fondamento della prescrizione del reato riposa, da una parte, sulla constatazione che il decorso del tempo fa via via venir meno l’interesse dello Stato ad accertare i crimini, dall’altra parte sull’esigenza di (relativa) rapidità dell’azione punitiva nel suo essere improntata a criteri di efficienza, effettività ed efficacia. L’esercizio della pretesa punitiva in un momento eccessivamente lontano dal compimento del fatto illecito non solo perde di senso deterrente e sanzionatorio ma, sul piano processuale, comporta una sempre maggior difficoltà di recupero delle fonti probatorie per le parti in causa, tanto per l’organo d’accusa quanto per l’imputato, si risolve per il primo in uno spreco di energie nell’esercitare un’azione penale (obbligatoria) e per il secondo in una violazione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito.

Certo è che la funzione nobile di garanzia cui l’istituto è preposto viene molto spesso tradita, vuoi perché le prescrizione è il motivo fondante dei più scaltri escamotages dilatori difensivi, vuoi perché essa è la cartina di tornasole dei mali della giustizia, delle sue inesorabili lentezze e, quindi, ingiustizie.

La disciplina precedente la legge “ex Cirielli”.

Il presente volume è già in bozze quando, accompagnata da strepitante clamore mediatico e da non sopite polemiche politiche, entra in vigore la Legge 5 dicembre 2005 n. 251 “Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione ” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 285 del 7 dicembre 2005. Sotto il profilo del diritto transitorio, la nuova legge non si applica ai  processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché ai processi già pendenti in grado di appello o davanti alla Corte  di Cassazione.

La nuova legge riforma completamente il meccanismo di calcolo dei termini prescrizionali.

L’originario art. 157 del codice penale [24] (rubricato “Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere) distingueva a seconda della gravità dei reati i termini prescrizionali:

La prescrizione estingue il reato:

1) in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni;

2) in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni;

3) in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni;

4) in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa;

5) in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’arresto;

6) in due anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’ammenda.”

Il secondo comma disponeva che “Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena (solo quella detentiva, quando è stabilita congiuntamente o alternativamente le pena detentiva e quella pecuniaria ) stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti”: nel caso delle aggravanti ad effetto comune l’aumento massimo è fino ad un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso, nel caso delle attenuanti comuni la diminuzione minima è di un giorno. Il comma successivo dispone che “Nel caso di concorso di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti si applicano anche a tale effetto le disposizioni dell’articolo 69” a norma del quale a) quando concorrono circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, e le prime sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tiene conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, e si fa luogo soltanto gli aumenti di pena stabiliti per le circostanze aggravanti, b) se le circostanze attenuanti sono ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti, non si tiene conto degli aumenti di pena stabiliti per queste ultime, e si fa luogo soltanto alle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti, c) se fra le circostanze aggravanti e quelle attenuanti il giudice ritiene che vi sia equivalenza si applica la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze.

La disciplina attuale.

L’art. 6 della legge 251 così ha sostituto l’articolo 157 del codice penale:

La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.

Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 449 e 589, secondo e terzo comma, nonchè per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti».

L’art 3 della nuova legge dispone che “All’articolo 160, terzo comma, del codice penale, le parole: «ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre la metà» sono sostituite dalle seguenti: «ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre i termini di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale». Anche il secondo comma dell’articolo 161 del codice penale è modificato, come segue: “salvo che si proceda per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, della metà nei casi di cui all’articolo 99, secondo comma, di due terzi nel caso di cui all’articolo 99, quarto comma, e del doppio nei casi di cui agli articoli 102, 103 e 105”.

La disciplina della decorrenza del termine della prescrizione è data dall’art. 158 che così dispone: “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui e’ cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui e’ cessata la permanenza o la continuazione”: la nuova legge, con riferimento a questa norma, si è limitata a sopprimere le parole “o continuato” e “o la continuazione” sicché la nuova formulazione è “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui e’ cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui e’ cessata la permanenza”:

Non vi sono particolari problemi per individuare il dies a quo nel reato consumato [25] e tentato, ne per il reato a condotta permanente in cui la prescrizione decorre dalla cessazione della permanenza che si realizza o con l’esaurimento di essa per il conseguimento dell’oggetto, cioè la verificazione dell’evento, o a seguito dell’eliminazione del carattere antigiuridico della condotta stessa, o per effetto della desistenza dell’autore o per l’intervento preventivo dell’autorità giudiziaria, oppure con la sentenza di condanna pronunciata in primo grado o a seguito dell’impugnazione da parte del p.m. della sentenza di proscioglimento.

Qualche dubbio operativo sorgeva (oggi, stante la Cirielli, il problema non si porrà più)  per il reato continuato [26]: qui la norma ricollega l’inizio del decorso della prescrizione alla cessazione della continuazione, considerando il reato continuato come un’unità reale, non suscettibile di scomposizione nei singoli reati che la compongono, siano essi istantanei o permanenti, sicchè la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione della continuazione per tutti i reati unificati nella complessa figura prevista dall’art. 81 cpv c.p. e, quindi, dalla consumazione dell’ultimo dei reati che entrano in continuazione, ma resta fermo il periodo prescrittivo proprio dei singoli reati che si prescrivono in tempi diversi.  Inoltre, nel reato continuato la pena è unica sicché le aggravanti ed attenuanti concernenti i reati satelliti rimangono privi di efficacia perché, per l’inscindibilità dell’aumento fino al triplo per la continuazione, non è possibile stabilire le porzioni di pena che si riferiscono agli illeciti meno gravi sui quali si dovrebbero operare gli aumenti o le diminuzioni delle rispettive circostanze; tale inefficacia, tuttavia, non riguarda l’ipotesi in cui le dette circostanze siano rilevanti ed influenti nella determinazione della durata del tempo necessario alla prescrizione, in quanto poiché in relazione a ciò la legge nulla dice se non in ordine alla decorrenza del termine della prescrizione, per il principio del favor rei il reato continuato, in tale ipotesi, va scisso e considerato come una pluralità di reati.

Così come nel diritto civile, anche nel penale sono previste le ipotesi di sospensione ed interruzione del corso della prescrizione.

L’art. 159 nella formulazione originaria dispone che il corso della prescrizione rimane sospeso – per riprendere il suo corso dal giorno in cui e’ cessata la causa della sospensione – nei casi di autorizzazione a procedere o di questione deferita ad altro giudizio ed in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale o dei termini di custodia cautelare sia imposta da una particolare disposizione di legge: citiamo a esempio il deferimento di una questione ad altro giudizio (per esempio civile), la questione di legittimità costituzionale, la sopravenuta infermità mentale dell’imputato, l’adozione di un provvedimento di sospensione o di rinvio del procedimento o del dibattimento disposto per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e sempre che l’una o l’altro non siano determinati da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa [27]. Si osservi che – a differenza che per il processo civile – la pendenza del processo penale non è di per se causa di sospensione del decorso della prescrizione, che continua a maturare in corso di causa, nei vari gradi di cui essa si compone.

La nuova formulazione dell’art 159 è la seguente: “Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere; 2) deferimento della questione ad altro giudizio; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. Sono fatte salve le facoltà previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale.  Nel caso di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica dal momento in cui il pubblico ministero presenta la richiesta e il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione”.

L’art. 160 prevede che il corso della prescrizione sia interrotto in una serie tassativa [28] di atti [29] giudiziari [30] : dalla sentenza di condanna, dal decreto di condanna, dall’ordinanza che applica le misure cautelari personali, dall’ordinanza di convalida del fermo o dell’arresto, dall’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, dall’invito a presentarsi al PM (non v’è uniforme orientamento se ciò valga anche per l’invito a presentarsi alla polizia giudiziaria, pur quando l’atto sia stato assunto su delega del PM [31] ) per rendere l’interrogatorio, dal provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, dalla richiesta di rinvio a giudizio, dal decreto di fissazione della udienza preliminare, dall’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, dal decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, dalla presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, dal decreto che dispone il giudizio immediato, dal decreto che dispone il giudizio e dal decreto di citazione a giudizio [32].

A differenza dalla prescrizione civile, in cui ogni atto interruttivo fa decorrere un nuovo termine di durata pari a quella prevista dalla legge per il caso di specie, nel penale (art. 160 c.p.), benché la prescrizione interrotta cominci nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione, nella previdente disciplina in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 potevano essere prolungati oltre la metà: perciò; un reato per cui l’art. 157 stabiliva un termine di prescrizione di cinque anni, pur in presenza di uno o più atti interruttivi, si prescriveva con il decorso di sette anni e mezzo.

Oggi, come detto, il meccanismo è completamente diverso  s i basa non più sull’astratto criterio della metà, ma è ritagliato sul caso concreto, dipendendo dalla presenza o meno della recidiva: l’attuale sistema prevede che la prescrizione abbia un termine corrispondente al massimo della pena edittale prevista per il reato, aumentata di un quarto se si è incensurati, aumentata della metà se si è recidivi, aumentata di due terzi in caso di recidiva infraquinquennale.

Quando il reato viene dichiarato estinto per prescrizione, si prescrive entro lo stesso termine anche il diritto al risarcimento del danno, senza che l’eventuale sentenza dichiarativa dell’intervenuta estinzione importi la decorrenza ex novo del termine di prescrizione del diritto al risarcimento dalla data della sentenza stessa  .

Delineati per sommi capi i meccanismi che presiedono all’istituto della prescrizione in sede penale, vediamo se vi siano problemi operativi per la concreta applicazione del terzo comma dell’art 2947 in base al quale se per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile.

In linea di massima, il calcolo dei termini di prescrizione penali si rivelava complesso laddove si trattava di considerare le circostanze del reato e procedere al bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti (operazione nella quale non mancano margini di discrezionalità, come ebbe ad osservare la Consulta [33]) ma, avendo l’accortezza di tener conto di tutti i parametri indicati dall’art 157 c.p., non si trattava di opera improba.  Oggi la questione è superata, posto che per determinare il termine prescrizionale non si tiene conto delle circostanze.

Il giudice [34] deve dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione non soltanto quando accerti l’avvenuto decorso del termine stabilito per il reato enunciato nel capo di imputazione, ma anche quando, restando immutato il fatto che forma oggetto della contestazione, reputi che esso deve essere ricondotto sotto un diverso titolo di reato per il quale la prescrizione è già maturata, oppure quando dagli atti emergano palesemente precisi e completi elementi di giudizio che rendono certa l’inesistenza delle aggravanti contestate ovvero forniscono una base sicura e indiscutibile per l’applicazione di circostanze attenuanti o consentono di procedere a un’esauriente valutazione comparativa delle circostanze ai sensi dell’art. 69 c.p., sì da ricondurre il reato in limiti punitivi cui sia correlato un più breve termine prescrizionale già maturato.

Nei casi in cui il giudice modifichi il titolo del reato e, in relazione alla minore gravità della nuova configurazione, lo dichiari estinto per prescrizione, esistono a tutela delle ragioni del danneggiato, che altrimenti resterebbe in balia di eventi posti al di fuori della sua sfera di controllo, due orientamenti giurisprudenziale: secondo il più risalente, il danneggiato solo dalla pronuncia della sentenza che dichiara la prescrizione penale sarà  tenuto ad osservare la prescrizione conseguente al nuovo titolo di reato, avendo sino a quella data fatto affidamento sulla conservazione dell’azione civile negli stessi termini utili per l’esercizio della pretesa punitiva dello stato contro il responsabile e, perciò, su una diversa situazione che gli assicurava la salvaguardia del proprio diritto [35]. Secondo altro orientamento [36] , deve sempre aversi riguardo per il computo della prescrizione penale al reato contestato nel capo di imputazione, dal momento che qualunque diminuzione della pena per effetto di determinazione operata dal giudice nel corso del procedimento penale (come la concessione di circostanze attenuanti o il mutamento del titolo del reato) per cui il termine di prescrizione venga a ridursi rispetto a quello previsto per il reato contestato, non estende al diritto al risarcimento del danno il più breve termine di prescrizione previsto per il reato ritenuto in sentenza.

Un serio problema che si poneva era se gli atti interruttivi della prescrizione intervenuti in sede penale spiegassero influenza o meno sulla permanenza in vita del diritto al risarcimento del danno, ma il contrasto giurisprudenziale è stato composto dalle Sezioni Unite con la sentenza 18 febbraio 1997 n. 1479 [37].

Ad un precedente [38] secondo il quale l’art. 2947 recepisce – sia per l’ampiezza della formula del richiamo, sia per la ratio di fare effettivamente corrispondere, nel concreto, la prescrizione dell’azione civile a quella del reato – l’intera normativa della prescrizione penale compresa quella parte di essa concernente l’efficacia degli atti interruttivi ex art. 160 c.p., se ne contrapponevano due [39] in cui la Corte aveva ritenuto che “non assumono rilievo eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato, essendo ontologicamente diversi l’illecito civile e quello penale“.

Le Sezioni Unite hanno risolto la questione facendo proprio il secondo orientamento ed affermando che, quando il fatto dannoso e’ considerato dalla legge come reato e per il reato e’ stabilita una prescrizione più lunga, quest’ultima si applica anche all’azione civile, ma le eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato non rilevano ai fini della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno.

Il principio trova fondamento nella considerazione 1) che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno cagionato da reato è raccordata alla disciplina della prescrizione penale limitatamente alla durata ma resta comunque inserita nel quadro generale dell’istituto della prescrizione civile, 2) gli atti interruttivi della prescrizione penale, che hanno ad oggetto una pretesa (quella punitiva da parte dello Stato) diversa da quella esercitata dal danneggiato, non potrebbero in alcun modo incidere sul decorso della prescrizione del diritto al risarcimento in quanto non provenienti dal titolare del diritto medesimo, 3) se, anziché computare i termini di prescrizione sulla base della pena edittale, si considerassero i sopravvenuti atti interruttivi di cui all’art. 160 c.p., non si avrebbe un unico termine di prescrizione per ciascuna ipotesi criminosa ma una molteplicità di termini variabile a seconda delle diverse contingenti vicende del processo penale (che le parti private potrebbero persino ignorare): per tali ragioni, secondo le Sezioni Unite, anche per la particolare prescrizione di cui all’ultimo comma dell’art. 2947 operano solo le cause di interruzione previste dalla disciplina civilistica, senza possibilità di integrazione con l’analogo (ma parallelo) istituto dell’interruzione deal prescrizione penale.

Non ci sembra che tutte le argomentazioni delle S.U. siano inattaccabili.

In via generale, la soluzione adottata dalla Corte contrasta con la ratio che presiede alla norma di cui all’ultimo comma dell’art.. 2947 c.c. ossia di evitare che, dichiarata la responsabilità penale, resti escluso l’obbligo di risarcimento della vittima del reato in conseguenza della maturata più breve prescrizione civile: se per un fatto illecito/fatto di reato si applica il termine di prescrizione penale ma lo si calcola in un modo ai fini penali ed in altro modo ai fini civili, significa snaturare l’esigenza posta alla base della norma rendendola sostanzialmente inutile.

Sul punto 1) osserviamo che se è vero che la prescrizione del diritto al risarcimento è ancorata a quella del reato ma resta inserita nel quadro generale dell’istituto della prescrizione civile, è anche vero che non c’è ragione per operare (nel silenzio della legge) un raccordo solo parziale: se il reato si prescrive, poniamo, in cinque anni che in realtà sono divenuti sette e mezzo per effetto di atti interruttivi, non si vede perché agli effetti civili il termine debba rimanere di cinque. Ciò anche in considerazione dell’orientamento delle stesse S.U. in base al quale il termine di prescrizione di matrice penalistica è utilizzabile in sede civile solo se il danneggiato abbia sporto querela.

Sul punto 3), il problema della molteplicità dei termini a seconda delle contingenze in cui si sia trovato il processo penale non è di gran conto, se si considera che l’art 157 c.p. non si limita a prendere in considerazione il parametro della pena edittale in astratto, ma dà concretezza al sistema di calcolo imponendo di considerare anche gli aumenti per le aggravanti e le diminuzioni per le attenuanti: la norma insomma implica una “personalizzazione” dei termini prescrizionali penali cui nessuna complicazione aggiunge l’eventuale allungamento dovuto agli atti interrutivi. Pensiamo poi che, mentre è di particolare difficoltà (sopratutto per il giudice civile che se ne debba occupare incidenter tantum) e si presta ad ampia discrezionalità la valutazione nel caso concreto della sussistenza di circostanze e del loro bilanciamento, nessuna difficoltà implica calcolare il semplice allungamento del termine di prescrizione fino alla metà per effetto di interruzione.

La questione (sub 2) della titolarità del diritto è certamente al più seria ma a ben veder anch’essa potrebbe superarsi in virtù di quanto appena osservato. Partiamo dalla constatazione che l’art. 2947 c.c. richiama e fa proprio il termine di prescrizione penale, termine fisiologicamente soggetto a variare a seconda che il reato sia semplice o circostanziato e che siano o meno intervenuti atti interruttivi da parte dell’autorità giudiziaria penale; quando il termine di prescrizione penale subisce un atto interrutivo, esso diviene più lungo ma resta pur sempre il termine che condiziona l’esistenza del reato, ossia si modifica quantitativamente ma non qualitativamente o ontologicamente.

Ed allora, se quel termine penale così modificato viene utilizzato ai fini civili, esso diviene il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, sic et simpliciter: non dovrebbe assumere alcun rilievo come in sede penale si sia giunti a conteggiare quel termine (sulla base dei soli limiti edittali e/o delle circostanze e/o di eventi interruttivi).

Il punto è dunque che se il termine di prescrizione del reato di dieci anni sia divenuto di quindici il reato si prescriverà in quindici anni, e che quando l’art. 2947 stabilisce che l’azione risarcitoria si prescrive nello stesso termine in cui si prescrive il reato, non c’è ragione per non ritenere che per esercitare tale azione il danneggiato possa disporre di quei medesimi quindici anni.

Se le cose stanno così, il problema della titolarità del diritto evidenziato dalla Corte diventa un falso problema tranquillamente superabile, perché non si tratta di trasportare arbitrariamente la disciplina dell’interruzione della prescrizione penale nell’ambito della disciplina della prescrizione civile (che, certo, richiede che venga posta in essere dal titolare del diritto), ma semplicemente di prendere dal penale e portare nel civile un termine calcolato secondo le modalità indicate dalla norma penale.

L’art. 2947 c.c. chiude disponendo che, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o se è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi (due o cinque anni) con decorrenza dalla data in cui la sentenza e’ divenuta irrevocabile.

E’ ovvio che tale effetto è dato sia dalla sentenza pronunciata a seguito di dibattimento sia da quella pronunciata su richiesta delle parti per effetto di “patteggiamento” ai sensi dell’art. 444 c.p.p. [40]

La norma del terzo comma dell’art. 2947 pone dunque un limite alla facoltà di far corrispondere il termine prescrizionale civilistico a quello più lungo penalistico – la cui ratio, come sappiamo, è di evitare di estinguere un reato entro un termine e le conseguenze civilistiche entro un altro – specificando che ciò è possibile solo fino a che il reato sia ancora “in vita”, ossia fino a che non sia estinto o non sia stato accertato con sentenza passata in giudicato.

Quando il reato si estingue per una ragione diversa dalla prescrizione, viene meno la predetta ratio e si applica il termine civilistico, omogeneo alla natura della controversia, ma il suo “dies a quo”, in considerazione della natura ontologica del fatto causativo (che resta, ad onta della estinzione, quella di reato), è il momento nel quale si è estinto il reato stesso, ovvero è divenuta irrevocabile la sentenza che lo ha accertato o ha pronunciato i suoi effetti.

La giurisprudenza avverte che, se si tratti di fatto illecito/fatto di reato plurioffensivo, in cui gli eventi o le lesioni di interessi giuridicamente protetti sono plurimi come frequentemente accade in caso di sinistro stradale in cui siano coinvolte più persone, “il fatto considerato dalla legge come reato contemplato dal capoverso della norma in questione deve essere inteso non già come comprensivo della molteplicità degli eventi derivanti anche da un’unica condotta dello stesso soggetto bensì come riferito a ciascun illecito nella sua realtà ontologica, sicché per ciascun evento sorge un’autonoma azione di risarcimento, con un distinto termine di prescrizione, e le cause interruttive o sospensive di tale termine riferite ad un “fatto – reato” non sono estensibili ad un “fatto – reato” diverso[41] .

La norma chiaramente si riferisce al caso in cui la sentenza penale non abbia anche statuito ai fini civili: laddove infatti il giudice penale abbia accertato e dichiarato la responsabilità civile dell’imputato (il che accadrà se la persona offesa si sia costituita parte civile) accertando il diritto al risarcimento del danno vuoi con sentenza di condanna generica vuoi con sentenza di condanna a risarcire un danno compiutamente liquidato, il termine di prescrizione non è quello di cui all’ultimo comma dell’art. 2947 c. c., ma quello decennale di cui all’art. 2953, sempre con decorrenza dalla data in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile [42].

Per quanto attiene all’azione della vittima di un incidente stradale contro gli eredi del danneggiante defunto nell’incidente, la giurisprudenza ritiene che il termine di prescrizione decorre dalla data della morte del danneggiante [43], poichè da tale momento si verifica ipso iure l’estinzione del reato, indipendentemente dal provvedimento del giudice che la riconosca [44] ed a prescindere dalla conoscenza che ne abbia il danneggiato. La Corte costituzionale ha ritenuto che ciò non contrasti con gli artt. 3 e 24 della Costituzione [45] .

Quando da una stessa collisione tra veicoli derivano contemporaneamente danni alla persona e alle cose di un medesimo soggetto (l’id quod plerumque accidit), il più lungo termine di prescrizione ex art. 2947, comma 3° si applica non alle sole lesioni fisiche ma all’intera pretesa risarcitoria dell’attore. La spiegazione data dalla S.C. è che la coincidenza degli interessi lesi in un solo soggetto determina la compromissione di una unica sfera giuridica, con conseguenze dannose tutte ad essa riferibili. Ad esse corrisponde il diritto, unico e complessivo del danneggiato al risarcimento [46].

Ciò vale nei confronti di tutti i coobligati, anche se costoro sono rimasti estranei nel procedimento penale [47]. Ciò in quanto l’art. 2947 c.c., quando fa coincidere il termine dell’azione risarcitoria con quello dell’azione penale, si riferisce a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria, senza distinzione alcuna. Esso perciò si applica tanto contro la persona penalmente imputabile quanto contro coloro che sono tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta e che possono essere rimasti estranei al procedimento penale [48].

Questa regola è l’espressione di un principio generale applicato dalla giurisprudenza, per cui, anche nel caso in cui il reato si estingua per causa diversa dalla prescrizione, la prescrizione decorre dalla data di estinzione del reato rispetto a tutti i soggetti che abbiano concorso nel fatto reato, o debbano comunque rispondere delle sue conseguenze civili, anche se, nuovamente, sono rimasti estranei al processo penale [49].

Naturalmente nel caso in cui l’estinzione del reato si verifichi a cagione della morte di uno dei coobligati imputati, la prescrizione decorre dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza penale relativa al fatto reato unitariamente considerato, perchè, secondo la giurisprudenza, è solo da questa data che l’azione civile non può essere paralizzata ai sensi dell’art. 3 c.p.p. [50].

Si noti però che si deve distinguere dalle ipotesi precedenti quella del concorso di condotte colpose indipendenti. Si pensi, ad esempio, all’omessa vigilanza su un minore da parte della madre e di mancata custodia di un fucile da parte del padre. Secondo la giurisprudenza in tale ipotesi potrebbe ravvisarsi non una corresponsabilità dei genitori per il fatto illecito accidentalmente commesso dal minore, ma un concorso di condotte colpose indipendenti, con la conseguenza che i termini di prescrizione possono essere diversi nei confronti dei diversi soggetti [51].

Non dovrebbe essere particolarmente ostica l’individuazione di chi siano i danneggiati che possano avvalersi del più lungo termine di prescrizione previsto dalla legge penale: se è certo che ne gode il danneggiato diretto, potrebbe porsi qualche problema con riferimento alle vittime indirette o di rimbalzo.

Il punto di partenza per la soluzione del problema sta nell’analisi della strutta del fatto illecito che per natura si presta ad essere plurioffensivo e nella corretta ricostruzione del nesso di causa nella responsabilità civile.

Iniziamo con il primo corno della questione.

Per molto tempo si è dibattuto sulla risarcibilità dei danni patiti dalle c.d. vittime secondarie di un fatto illecito, posto che dalla medesima condotta illecita possono sgorgare effetti lesivi non solo nei riguardi della vittima primaria ma anche a danno di chi con essa abbia rapporti (vuoi economici, vuoi affettivi) che l’ordinamento ritenga meritevoli di tutela.

Il capostipite giurisprudenziale si rinviene nella celeberrima sentenza sul caso Meroni [52] relativa all’investimento del famoso calciatore del Torino: a causa del decesso del proprio giocatore. La società sportiva aveva evocato in giudizio i genitori del minorenne responsabile del sinistro invocando la lesione del proprio diritto di credito avente ad oggetto la prestazione professionale sportiva. La Corte approfittò del caso per capovolgere l’orientamento [53] – anch’esso coinvolgente la stessa società Torino Calcio, con riferimento alla strage aerea di Superga in cui nel 1949 perse la vita l’intera squadra – in base al quale si ritenevano tutelabili dalle aggressioni da parte dei terzi i soli diritti assoluti.

Con la sentenza Meroni, la Cassazione sgretolò la prospettazione dell’irrisarcibilità della lesione dei diritti di credito, dimostrando come il principio della relatività degli effetti del contratto (espresso dall’art 1372 c.c. per cui il contratto non produce effetto che tra le parti) implica solo che il contratto non può produrre gli effetti che è destinato a produrre ed in vista dei quali è stipulato a vantaggio o a danno di soggetti che non abbiano partecipato alla sua formazione: la norma esclude che il contratto possa produrre indebita proiezione nella sfera giuridica dei terzi, ma non è possibile capovolgere il principio che regge quella norma, per trarne che i terzi possano impunemente interferire nella situazione obbligatoria tra i contraenti. E’ infatti insito nel nostro sistema normativo una generale obbligazione, da parte di tutti e nei confronti di tutti gli altri, di non ledere i diritti altrui, espressa dalla clausola generale del neminem laedere espressa dall’art 2043 c.c.

Escluso che la relatività degli effetti del contratto potesse incidere sul dovere dei terzi di astenersi dal commettere fatti illeciti interferenti con l’assetto contrattuale, la Corte rilevò che anche la struttura del fatto illecito non si prestasse a limitare la tutela ai soli diritti assoluti, in considerazione della nozione ampia di danno ingiusto come comprensivo di qualsiasi lesione dell’interesse che sta alla base di un diritto, in tutta la sua estensione: l’ingiustizia va intesa nella duplice accezione del danno prodotto non jure, cioè in assenza di cause giustificative, e contra jus, cioè di danno che incida su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto, comprendendo in tale tutela anche i diritti relativi.

La Corte si esprimeva ancora solo in termini di diritti. E’ noto che per ricomprendere nella clausola dell’ingiustizia qualche cosa di diverso dai diritti soggettivi si dovette attendere il 1999 quando le Sezioni Unite con la nota sentenza n. 500 [54] sancirono la risarcibilità anche con riferimento agli interessi legittimi: “avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima della p.a., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo” ed ancora “La lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse (non di mero fatto ma) giuridicamente rilevante, rientra nella fattispecie della responsabilità aquiliana solo ai fini della qualificazione del danno come ingiusto. Ciò non equivale certamente ad affermare la indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale. Potrà infatti pervenirsi al risarcimento soltanto se l’attività illegittima della p.a. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento. In altri termini, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poichè occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima (e colpevole) della p.a., l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.”.

In conclusione, la struttura aperta e atipica del fatto illecito è tale da ricomprendere diverse fattispecie lesive, dando tutela ad una serie indefinita di diritti ed interessi ritenuti meritevoli dall’ordinamento: poiché nulla esclude che da un’unica condotta illecita derivino più effetti pregiudizievoli, si capisce come il fatto illecito ben possa essere plurioffensivo.

Alla plurioffensività sotto il profilo oggettivo, quello della selezione dei diritti od interessi tutelati, si accompagna una possibile plurioffensività di carattere soggettivo: il medesimo fatto illecito ben può ledere diversi diritti di diversi soggetti.

Ebbene, sotto questo particolare profilo, si è per molto tempo posto il problema dell’esistenza (o meno) di un limite alla schiera dei soggetti titolati ad avanzare pretese risarcitorie, con particolare riferimento non tanto ai casi semplici in cui il medesimo fatto illecito lede direttamente più soggetti passivi (pensiamo all’omicidio o alle lesioni plurime), quanto ai frequenti casi in cui tra la condotta illecita ed i danni vi sia un rapporto non immediatamente percepibile come diretto.

Ed ecco che siamo giunti ad esaminare il secondo corno della questione che ci interessa, quello del nesso di causalità.

Il codice civile non contiene una specifica disciplina del nesso di causa, sicché è oggi pacifico che ci si debba avvalere di quella contenuta nel codice penale (artt. 40 [55] e 41 [56]) e delle teorie elaborate dalla dottrina e giurisprudenza penalistica.

La giurisprudenza ha ormai sgomberato il campo da quello che per molto tempo è stato un problema particolarmente dibattuto, ossia se l’art. 1223 – nella parte in cui stabilisce che si può ottenere il risarcimento del solo danno che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (o del fatto illecito) – riguardasse oltre che la selezione dei danni risarcibili anche la questione del nesso di causalità tra fatto ed evento dannoso.

Si contrapponevano, due opposti orientamenti giurisprudenziali, in base al primo dei quali [57] l’art. 1223 avrebbe la funzione di selezionare tra gli eventi dannosi lamentati dalla vittima quelli da porre in concatenazione causale con la condotta sulla base del loro essere diretti ed immediati. Per questa via quella giurisprudenza giungeva ad escludere il risarcimento del danno non patrimoniale alle c.d vittime di rimbalzo che, soffrendo per le sofferenze del proprio familiare, non sono colpiti in modo diretto e immediato dalla condotta lesiva: tale danno, essendo in vita la vittima della lesione, sarebbe solo un danno costituente conseguenza mediata e indiretta della lesione, e come tale non risarcibile a norma dell’art. 1223.

Il secondo orientamento [58] enuncia invece che “il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito (o dall’inadempimento in tema di responsabilità contrattuale), deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale“.

Il contrasto giurisprudenziale è stato recentemente composto dall’intervento risolutore delle Sezioni Unite [59] che hanno fatto proprio il secondo degli orientamenti esposti: “la questione della causalità di fatto è regolata dagli artt. 40 e 41 del codice penale e non dall’art 1223 CC, il quale attiene all’oggetto dell’obbligazione risarcitoria … e quindi riguarda il problema della selezione dei danni risarcibili e non quello del nesso causale“. Il giusto criterio con il quale porre in relazione causale fatto e danno sarebbe dunque quello della teoria della condicio sine qua non (in base alla quale l’evento dannoso è da considerare causato dalla condotta quando, ferme restando le altre condizioni, esso non si sarebbe verificato in assenza di quella) temperata dal correttivo della teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (in base a cui, all’interno delle serie causali che il criterio della condicio sine qua non ha evidenziato, assumono rilievo solo quelle non appaiono del tutte inverosimili nel momento in cui viene posta in essere la condotta causante). Il risultato è che il nesso di causalità tra fatto illecito ed evento può anche essere indiretto e mediato purchè il danno si presenti come un effetto normale secondo il principio della regolarità causale [60].

In termini di causalità, il rapporto esistente tra il fatto del terzo ed il danno risentito dai prossimi congiunti della vittima è identico, sia che da tale fatto consegua la morte, sia che da esso derivi una lesione personale. Non vi sono eziologie diverse tra il caso della morte e quello delle semplici lesioni perché in entrambe le ipotesi esiste una vittima primaria, colpita o nel bene della vita o nel bene della salute, e una vittima ulteriore (il congiunto) anch’essa lesa in via diretta ma in un diverso interesse di natura personale. Ecco perché dottrina e giurisprudenza più accorte ritengono fuorviante parlare di danno riflesso o di rimbalzo, proprio perché lo stretto congiunto, convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con la vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di ordine psichico, morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima iure proprio ad agire contro il responsabile dell’evento lesivo [61] .

E’ così che oggi sono pacificamente risarcibili i danni patrimoniale e non patrimoniali patiti dalle vittime secondarie – siano essi i congiunti, siano essi i creditori come da dottrina Meroni – sia in caso di morte della vittima primaria sia in caso di grave lesione personale.

Dunque, se il fatto illecito può esser plurioffensivo sul versante oggettivo e su quello soggettivo, ci si chiede quid iuris per il termine di prescrizione nel caso in cui l’illecito si configuri quale reato e vi siano più vittime, alcune delle quali “di rimbalzo”. Può la vittima secondaria godere del termine prescrizionale penalistico ai sensi del terzo comma dell’art 2947di cui pacificamente gode la vittima primaria, direttamente tutelata dalla norma penale?

A noi pare che la risposta non possa che esser positiva, se è vero tutto ciò che abbiamo appena esposto sulla natura e sulla struttura del fatto illecito, e se è vero che pacificamente la giurisprudenza penale distingue tra la persona offesa dal reato – che è titolare del bene giuridico tutelato dalla norma – ed il danneggiato civile – che è il soggetto che dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente coincidente con la persona offesa – al quale è riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile: se la vittima secondaria è legittimata ad esercitare la pretesa risarcitoria costituendosi parte civile nel processo penale, non si vede come le si possa negare di godere del termine di prescrizione di derivazione penale.

Che le cose stiano così sembra piuttosto pacifico.

Un caso molto particolare che si è affacciato in giurisprudenza è quello del diritto del datore di lavoro ad ottenere dal terzo, responsabile del sinistro stradale occorso ad un proprio dipendente, il risarcimento del danno, rappresentato dalle somme corrisposte al lavoratore nel periodo di assenza dal lavoro e dai contributi obbligatori. Sul punto constano due soli precedenti, l’uno opposto all’altro.

L’indirizzo più risalente [62], e certamente non condivisibile, è nel senso che per il datore il diritto a siffatto risarcimento sarebbe soggetto alla prescrizione breve di due anni ex art. 2947, 2° comma c. c., poiché la condotta generatrice del danno è connessa alla circolazione dei veicoli e, pur avendo in comune con l’illecito penale subito dal lavoratore la condotta, è da questo concettualmente distinto, nel senso che per il lavoratore l’evento sono le lesioni riportate, mentre per il datore di lavoro l’evento è rappresentato dalla mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative e a conseguente esborso della retribuzione in assenza di controprestazione.

Un più recente indirizzo [63] invece sostiene, a ragione, che qualora al sinistro siano conseguite lesioni e quindi ci si trovi dinanzi ad un reato, il termine lungo di prescrizione stabilita per il reato si applica anche al diritto di credito del datore di lavoro “per il motivo che tanto in linea di fatto, quanto in linea di diritto il reato come tale ha un solo evento, costituito dalle lesioni colpose, mentre i riflessi dello stesso sulla posizione patrimoniale del lesionato ed eventualmente del suo datore di lavoro ne sono mere conseguenze. In altri termini, quando nel terzo comma del menzionato art. 2947 si accenna ad un fatto considerato dalla legge come reato è ovvio che il riferimento è all’entità giuridica che riguarda e può riguardare esclusivamente l’autore delle lesioni e la vittima delle stesse, sicché appare concettualmente errato qualificare l’eventuale danno subìto dal datore di lavoro per la corresponsione di retribuzioni in assenza di sinallagmatiche prestazioni come secondo evento. Questo danno è solo eventuale, essendo senz’altro pensabile – ed anzi fino a non molto tempo fa ciò era la regola – che il dipendente subisca in proprio anche la perdita della retribuzione e pretenda, perciò, dall’autore del reato anche il ristoro di tale danno. Nell’odierna realtà, peraltro, l’acquisizione di una coscienza sociale più avanzata ha portato ad accollare quasi sempre al datore di lavoro l’onere della corresponsione delle retribuzioni – per dirla con Totò – …a prescindere, ossia senza che rivesta rilevanza alcuna la causa del venir meno della controprestazione. Ma se quest’ultima è venuta meno per “l’intrusione illecita di terzi nella sfera giuridica del lavoratore” (così Cass. Civ. 27 agosto 1985 n. 4373 in Il Foro ital. 1985 I, col. 2886 con ampia nota di Pardolesi) ecco che, sia pure in linea di fatto, il datore di lavoro subentra in locum e jus del suo dipendente e può recuperare le somme esborsate. Per far ciò, tuttavia, egli, così come avrebbe dovuto fare il dipendente cui subentra, deve attendere che – attraverso l’accertamento dell’illiceità (così Cass. Civ. 4373 cit.) – si stabilisca l’effettiva responsabilità del presunto autore delle lesioni, nel che consiste la ratio del più lungo periodo di tempo dato per la prescrizione. Tale ratio si ricava indubitabilmente dalla previsione della ripresa del termine più breve nella ipotesi in cui il reato è estinta per causa diversa dalla prescrizione o quando sia intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, ossia, sostanzialmente, o quando vi è stata remissione della querela o quando l’accertamento è ormai definitivamente intervenuto”. Una motivazione del tutto convincente.


[1] cfr..Iannaccone, A., Art. 2947: prescrizione del diritto al risarcimento del danno, in La prescrizione, a cura di Vitucci, P., Il Codice Civile – Commentario, diretto da Schlesinger, P., Milano, 1999, Tomo II, 162 e ss.

[2] Sui rapporti tra azione civile ed azione penale quanto al tema della prescrizione si rinvia da ultimo ai seguenti contributi: Berti, P. Azione civile ed azione penale, in Monateri, P.G., Bona, M., Oliva, U., Peccenini, F., Tullini, P., Il danno alla persona, Torino, 2000, Tomo II, 749 e ss.; Feola, Risarcimento del danno da reato e interruzione della prescrizione, in Resp. civ. prev., 1997, 714; Monateri, P.G., e Bona, M., Il danno alla persona, Padova, 1998, 443-446; Giannini, G., e Pogliani, M., Il danno da fatto illecito, cit., 91 ss., 103 ss.; Covino, Danno e reato, Torino, 1997, 189 ss.; Franzoni, M., Il danno alla persona, cit., 736-744; Carassale, La validità dell’art. 2947 c.c., 3° comma, e le cause estintive del reato nel nuovo codice di procedura penale, in Resp. civ., 1990, 721.

[3] Così Iannaccone, A., Art. 2947: prescrizione del diritto al risarcimento del danno, cit., 162.

[4] Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2001, n. 5693

[5] Cass. sez. III 1 marzo 1994, n. 2012, Valvano c. Frusci e Ass. Generali

[6] È pacifico che la costituzione di parte civile comporta il trasferimento nel processo penale dell’azione precedentemente proposta in sede civile, a norma dell’art. 75 del nuovo c.p.p., con conseguente estinzione del giudizio civile per rinuncia agli atti del giudizio, nel solo caso di effettiva coincidenza delle azioni per “petitum” e “causa petendi”. Cass. pen., sez. II, 26 maggio 2000 n. 7126 specifica che “deve escludersi che il danneggiato dal reato che abbia esercitato l’azione risarcitoria nel processo civile sia legittimato, dopo la pronuncia di una sentenza di merito anche non passata in giudicato in tale sede, a costituirsi parte civile nel processo penale per far valere ulteriori profili di danno derivanti dalla stessa causa, diversi da quelli fatti valere nel precedente giudizio”, il che si spiega con il concetto dell’unicità del danno, che rimane unico anche se specificato in varie voci.

[7] Il trasferimento dell’azione civile dal processo civile a quello penale impedisce il proseguimento di quello civile, perchè non possono pendere davanti a giudici diversi più processi per la stessa causa e perchè l’ordinamento consente alla parte di chiedere che sul merito della domanda già proposta al giudice civile provveda il giudice penale. Trattasi di preclusione che non richiede eccezione di parte, perchè attiene, come per la litispendenza, ad un interesse all’ordinato esercizio della giurisdizione che sovrasta il potere dispositivo delle parti.

V. poi Corte Cost., 23 maggio 2002, n. 211, Lanaro / Castania: “ È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 24 e 25 cost., la q.l.c. dell’art. 75, comma 1, c.p.p., nella parte in cui tale norma – a differenza di quanto è invece stabilito dall’art. 306 del codice di rito civile in tema di estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio – non prevede che il trasferimento dell’azione civile nel processo penale avvenga solo se vi è l’accettazione delle parti costituite, che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio, in quanto la logica sottesa dalla norma del processo civile invocata quale “tertium comparationis” (e cioè l’esigenza di consentire alla parte non rinunciante di conseguire una pronuncia che accerti l’eventuale infondatezza della domanda proposta nei suoi confronti da chi ha poi formulato la rinuncia), non può valere per l’ipotesi di trasferimento dell’azione civile dalla sede propria a quella penale, posto che in tale evenienza è la stessa azione – e quindi il medesimo “processo” – a proseguire in altra sede: con la conseguenza che l’accertamento di merito sulla fondatezza della domanda viene ad essere compiutamente espletato, addirittura con possibilità difensive maggiori per l’imputato – convenuto

[8] Ex permultis Cass. 22 luglio 1996, n. 6527; Cass. 2 agosto 1997, n. 7178; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1643; Cass. 3 marzo 2000, n. 2367; Cass. 24 marzo 2000, n. 3536, Cass. 5 marzo 2001, n. 3747

[9] Cass. 28 aprile 1977, n. 1623; Cass. 6 dicembre 1982, n. 6651; Cass. 18 giugno 1985, n. 3664; Cass. 20 novembre 1990, n. 11198; Cass. 12 agosto 1995, n. 8845

[10] Ord. Trib. Roma 20 maggio 2002, in Corriere Giuridico 10/2002, 1331

[11] Cass. civ., sez. III, 23 aprile 1997, n. 3529,  Martino c. Soc. Tirrenia assicur. e altro

[12] Cass. civ., sez. II, 1 febbraio 1992, n. 1068, Covino / Castelluccio

[13] v. Cass. civ., sez. III, 09 aprile 2001, n. 525, Montedison / Martinelli: “la costituzione di parte civile nel processo penale rientra fra gli atti interruttivi della prescrizione considerati dall’art. 2943 c.c. e, come ogni altra domanda giudiziale, produce un effetto interruttivo permanente per tutta la durata del processo, ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna.”

[14] Cass. civ., Sez.III, 06/12/2000, n.15511, Min. pol. agr. Min. politiche agr. C. Baldino e altri, in Mass. Giur. It., 2000: “Nell’ipotesi di costituzione di parte civile per il risarcimento del danno contro due imputati, il sopravvenuto decesso di uno di questi, comportando il venire meno, nei suoi confronti, di ogni potere decisionale del giudice penale, implica, con riguardo ai suoi eredi, che la costituzione stessa spiega effetti interruttivi soltanto istantanei in ordine alla prescrizione del credito risarcitorio (art. 2945, comma 3, c.c.), ma non osta a che il creditore, in relazione alla prosecuzione del processo a carico dell’altro imputato, continui a beneficiare degli effetti permanenti dell’interruzione medesima verso quest’ultimo, fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo penale (art. 2945, comma 2, stesso codice). Ne consegue che, nel giudizio civile per il risarcimento del danno promosso contro i suddetti eredi, il creditore, previo accertamento del carattere solidale del debito dei due coimputati, può invocare l’estensione degli indicati effetti permanenti dell’interruzione della prescrizione anche nei confronti di tali eredi, tenuto conto che il principio fissato dall’art. 1310, comma 1, c.c. trova applicazione anche nel caso in cui la domanda giudiziale sia proposta contro entrambi i coobbligati, ma non venga proseguita nei confronti di uno di costoro (per estinzione nei suoi riguardi del processo civile, ovvero, per cessazione degli effetti della costituzione di parte civile nel processo penale, a seguito di estinzione del reato per morte dell’imputato).

[15] Cfr. ad esempio D’Ippolito c. Uniass assicurazioni, Cass., Sez. III, 16 dicembre 1992, n. 13275.

[16]uno stato soggettivo di sospetto o di dubbio, ancorché sorretto da elementi solo parzialmente rilevatori di un ipotetico reato, non è sufficiente per integrare la notizia in parola; trattandosi di una causa di decadenza, nell’accertare il momento in cui ha avuto inizio il decorso del termine deve essere adottato un criterio rigoroso” osserva Pret. Roma, 22 gennaio 1993, Ascani

[17] Cass. pen., sez. IV, 8 aprile 1998, n. 5007, Bonomo

[18] Cass. civ., sez. un., 2 ottobre 1998, n. 9782, Nuara c. Soc. Sai Ass.ni

[19] Cass. civ., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5121, Leonardi c. Soc. Universo Ass.ni

[20] Cass. 28 luglio 2000 n. 9928, Cass. 15 aprile 1996 n. 3535; 23 aprile 1997 n. 3529; 4 luglio 1998 n. 6554; 10 giugno 1999 n. 5701, 12 luglio 1999 n. 7344

[21] Cass. civ., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5121, Leonardi c. Soc. Universo Ass.ni, in Foro Italiano, 2003, 2402

[22] Cass. 22 maggio 1996 n. 4740

[23] Sezioni Unite 2 ottobre 1998 n. 9782

[24] La Corte cost. con sentenza 31 maggio 1990  n. 275 ne ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale nella parte in cui non prevede che la prescrizione del reato possa essere rinunziata dall’imputato

[25]Poichè la prescrizione costituisce un’ipotesi di rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva, la sua operatività va verificata con riferimento all’azione penale esercitata per il reato che – nelle sue componenti essenziali ed accessorie – abbia ricevuto la qualifica definitiva; non, quindi – ove intervengano statuizioni innovative dell’accusa genetica, rilevanti ai fini del tempo necessario al maturarsi della prescrizione – con riguardo al fatto storico che ha determinato la formulazione dell’imputazione. E ciò anche considerato la funzione delle cause interruttive del decorso della prescrizione, connaturate alla logica stessa dell’istituto, quale manifestazione dell’interesse dello Stato alla punizione del reato, un interesse da rapportare necessariamente – condizionato come esso appare al disvalore del fatto – alla decisione ritenuta in sentenza. Ne deriva che il compimento del termine di prescrizione di un reato in data anteriore alla emissione del decreto di citazione a giudizio non può mai considerarsi un fatto sopravvenuto alla condanna, trattandosi di un evento ad essa anteriore che la decisione di merito si limita a verificare utilizzando gli strumenti più articolati e complessi propri della fase del giudizio, il cui epilogo si sostanzia, per il profilo riguardante la valutazione retrospettiva delle vicende cronologiche, in un atto di accertamento costitutivo. (In applicazione di tale principio, la Corte ha statuito che, nel caso in cui il giudice conceda le attenuanti generiche dichiarando la loro equivalenza con la contestata aggravante, i termini di prescrizione vanno stabiliti con riferimento al reato ritenuto in sentenza e non a quello originariamente contestato: un’operazione da utilizzare, non soltanto ai fini della individuazione della distanza cronologica concretamente esistente fra tempus commissi delicti e sentenza di condanna, ma anche allo scopo di verificare la susseguente efficacia di un atto interruttivo allorchè l’imputazione originaria venga ad essere adottata – ed eventualmente ridotta quanto alla sua valenza antisociale – alle esigenze teleologiche proprie della decisione di merito).” Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 1993

[26] Art. 81. Concorso formale. Reato continuato.

E’ punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione piu’ grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette piu’ violazioni della medesima disposizione di legge

Alla stessa pena soggiace chi con piu’ azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi piu’ violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.

Nei casi preveduti da quest’articolo, la pena non puo’ essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti

[27] Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2001, n. 1021. In senso opposto, v. Cass. pen., sez. IV, 26 gennaio 1999, n. 3123: “ Il rinvio dell’udienza dovuto a legittimo impedimento del difensore (ivi compreso quello determinato dall’adesione di quest’ultimo ad astensione collettiva dalle udienze), non comporta, quando non incida sulla sospensione dei termini di custodia cautelare (o perchè trattasi di procedimento con imputato a piede libero o perchè non è stato adottato lo specifico provvedimento previsto dall’art. 304 comma 1 lett. a) c.p.p.), la sospensione del corso della prescrizione, ai sensi dell’art. 159 comma 1 c.p.

[28] Una curiosità: secondo Cass. pen., sez. III, 11 marzo 1999, n. 4660 “il decorso del termine di prescrizione del reato non è sospeso per effetto dell’astensione dalle udienze della classe forense. Infatti la sospensione dei termini ex art. 159 c.p. nella nuova formulazione introdotta con l. n. 332 del 1995 è stabilita direttamente dalla legge e non già a seguito del provvedimento dell’autorità giudiziaria come quella prevista dall’art. 304 c.p.p. Inoltre, a prescindere dal fatto che l’adesione all’astensione collettiva dalle udienze, deliberata dall’associazione di categoria, possa o meno considerarsi come legittimo impedimento del difensore, essa certamente deve essere comunicata, non essendo sicuramente inscrivibile nell’ambito delle cause di legittimo impedimento dell’imputato, dallo stesso difensore all’autorità precedente. Ne consegue che detta adesione essendo suscettibile di valutazione discrezionale da parte del giudice che deve contemperare le ragioni del rinvio con quelle della celebrazione del dibattimento, non determina “ex lege” gli effetti interruttivi previsti dall’art. 159 c.p.

[29] secondo Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1998, n. 1387 va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo. Gli atti interruttivi della prescrizione, infatti, hanno valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza nello Stato dell’interesse punitivo.

[30] ai fini dell’individuazione del momento nel quale opera la interruzione della prescrizione si deve avere riguardo alla data di emissione dell’atto da parte dell’autorità giudiziaria e non a quello della sua notificazione all’imputato, come si legge ex multis in Cass. pen., sez. I, 10 aprile 1996. Cfr in tal senso Cass. pen., sez. un., 28 ottobre 1998 n. 1339 circa il decreto di citazione a giudizio: trattandosi di atto autoritativo, infatti, esso produce l’effetto interruttivo indipendentemente dall’avvenuta conoscenza da parte dell’imputato, sebbene emesso dal p.m. (cioè da un soggetto che riveste il ruolo di parte processuale).

[31] per l’inefficacia di tale atto v Cass. pen., sez. V, 30 maggio 2000 n. 7531; per la soluzione positiva v. Cass. pen., sez. VI, 12 gennaio 1999, n. 144

[32] v. Corte cost. (ord.), 17 dicembre 1999, n. 452: “E’ manifestamente infondata, con riferimento agli art. 3 e 24 cost., la q.l.c. dell’art. 160 c.p. nella parte in cui – secondo diritto vivente – prevede che il corso della prescrizione è interrotto dall’emissione del decreto di citazione a giudizio, anzichè dalla notificazione del decreto stesso. Infatti, l’art. 3 cost., si rivela non correttamente evocato, sia perchè il potere attribuito al p.m,. di emettere nel giudizio pretorile il decreto di citazione a giudizio – che è funzionale soprattutto al sollecito esercizio, da parte dell’imputato, della facoltà di richiedere, a norma dell’art. 555 comma 1 lett. e) c.p.p., uno dei riti semplificati – non determina alcuna violazione della parità delle parti, rappresentando il decreto di citazione a giudizio uno degli strumenti attraverso i quali il p.m. esercita l’azione penale a norma dell’art. 405 stesso codice, senza che possa riscontrarsi diseguaglianza di sorta in relazione al momento ritenuto rilevante ai fini dell’interruzione della prescrizione, una volta che l’atto risulti perfezionato nei suoi requisiti di sostanza e di forma e si configuri, quindi, come vera e propria “vocatio in iudicium”; sia perchè l’addotta diseguaglianza (tra p.m. e parte privata) è coessenziale alla tipologia dell’atto, cui la legge riconosce l’effetto interruttivo della prescrizione. Inoltre, deve escludersi ogni violazione del diritto di difesa, non soltanto perchè non può assegnarsi alcun rilievo giuridico ad una sorte di “aspettativa” dell’imputato al maturarsi della prescrizione, ma anche perchè la conoscibilità effettiva dell’atto interruttivo non rappresenta condizione per il dispiegarsi delle possibilità difensive, attenendo la causa estintiva del reato alle conseguenze derivanti dal decorso del tempo e il diritto di difesa alla possibilità di contestare il contenuto dell’accusa, non preclusa all’imputato dal decorso dell’effetto interruttivo di tale causa estintiva dalla emissione, anzichè dalla notificazione, del decreto di citazione a giudizio. Infine, non risulta pertinente il richiamo all’art. 6 comma 3 lett. b), della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sia per la ricordata natura “sollecitatoria” dell’attribuzione al p.m. del potere di emettere il decreto di citazione a giudizio, sia perchè, in ogni caso, all’atto della notificazione, l’imputato e la sua difesa sono posti in grado di avvedersi dell’insussistenza della causa estintiva e non è certamente la notificazione dell’atto ad incidere sulla pronta definizione del processo.

[33] Corte cost., 31 maggio 1990, n. 275

[34] cfr. Cass. pen., sez. un., 25 novembre 1998, n. 3, Messina

[35] Cass. civ., 17 maggio 1985, n. 3013, Alberti c. Società Banco lariano, GCM, 1985.

[36] Cass. civ., sez. III, 17 maggio 1997 n. 4431, Bartolini e altro c. Soc. Savoia assicur

[37] Conforme, Cass. civ., sez. III, 4 dicembre 1997, n. 12324

[38] Cass. 14 febbraio 1987 n. 1636

[39] Cass. 29 marzo 1990 n. 2585 e 1 marzo 1994 n. 2012

[40] Trib. Roma, 25 giugno 2003,  Rainaldi / Assitalia, secondo cui “La sentenza penale irrevocabile che, ai sensi dell’art. 2947 comma 3 c.c., interrompe l’applicabilità al diritto al risarcimento del danno del più lungo termine di prescrizione previsto per il reato, è soltanto quella pronunciata nei confronti del soggetto passivo rispetto alla pretesa risarcitoria. Pertanto, se il procedimento penale iniziato nei confronti dei due coautori di un fatto illecito si concluda nei confronti dell’uno con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., e successivamente nei confronti dell’altro con sentenza di assoluzione resa in esito al dibattimento, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti del patteggiante (soggetta al termine ordinario inizia a decorrere dalla data della sentenza di patteggiamento, se il danneggiato stesso non abbia proposto domanda alcuna nei confronti del coimputato.

[41] Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2002, n. 14528

[42] Cass. civ., 21 luglio 1989, n. 3448, Botrugno / Pansini

[43] Moroni c. SAI, App. Perugia 3 giugno 1988, in Foro it. 1989, I, 1954.

[44] Assitalia c. Griffo, Cass.civ., 7 novembre 1987, n. 8249, RGCT, 1988, 286; DPA ss, 1988, 905 con nota; AGCS, 1988, 309; Assitalia c. Gentiluomo, Cass. civ. 25. novembre 1988, n.6337, AGCS, 1989, 189; Censi c. Vulcano, Cass. civ., 11 giugno 1983, n. 4029, AGCS, 1983, 745.

[45] Vecchioni, Corte Cost. 30 giugno 1988., n. 732, GI, 1989, I, 1, 16; G. Cost, 1988, I, 3340.

[46] In  tal senso Murianni c. Toro ass., Cass. civ. 2 marzo 1984, n. 1494, AGCS, 1984, 597.

[47] Randazzo c. Musumeci, Tribunale di  Palermo, 4 gennaio 1980, RGCTrasp. 1980, 771.

[48] In tal senso Cass. 09 ottobre 2001 n. 12357, Ciampalini c. Pari;, Cass. civ. 6 febbraio 1989 n. 729, Gregorace c. Ospedale civile Catanzaro per il caso di un ente ospedaliero che doveva rispondere del fatto illecito di un medico dipendente. Cfr. pure SAI c. Allesecures Preservatrice, Cass. civ. 5 luglio 1989, n. 3207, GCM.

[49] Muscadello c. Sodi, Cass. civ. 24 aprile 1981, n. 2458, GCM.

[50] Casadei c. Varrone, Tribunale di  Ravenna, 2 maggio 1980, Giur. Merito 1981, 1280.

[51] INPS c. Frasca, Pretura di Vittioria, 28 dicembre 1983, Informazione previd. 1985, 545. Nella specie la madre non era stata incriminata, per cui il termine decorreva dal fatto, mentre incriminato il padre il termine decorreva nei suoi confronti dal momento dell’estinzione del reato intervenuta per morte dell’imputato.

[52] Cass. S.U. 26 gennaio 1971 n. 174, Torino Calcio s.p.a. c. Romero

[53] Cass. sez III 4 luglio 1952 n. 2085

[54] Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999 n. 500, Com. Fiesole c. Vitali

[55] L’art 40 CP rubricato “rapporto di causalità” dispone che nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione. Il secondo comma, che è quello che qui ci interessa, stabilisce che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.

[56] il rigore del principio della equivalenza delle cause dettato dall’art. 40 c.p., in base al quale se la produzione di un evento lesivo è riferibile a più azioni od omissioni deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio della causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 secondo comma, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo se questa azione risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto. Il che, secondo la teoria dell’Antolisei, significa che il secondo comma dell’art. 41 deve essere interpretato nel senso che non v’è nesso causale quando l’evento è dovuto a fattori sopravvenuti anormali, rarissimi, eccezionali

[57] espresso da varie sentenze tra cui Cass n.11396/98 e 2037/00, per cui la lesione fa soffrire immediatamente e direttamente il danneggiato, mentre per i prossimi congiunti i danni morali sarebbero una conseguenza mediata e indiretta e, come tali, non risarcibili

[58] Il revirement è di Cass. Sez. III 23 aprile 1998 n. 4186, Pinna c. Pilucchi, fatto proprio dalle più volte citate ”sentenze gemelle” del 2003, le nn. 8827 e 8828

[59]Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese

[60] I passaggi logici possono così sintetizzarsi: si afferma che il nesso di causalità fra fatto illecito ed evento può essere anche indiretto e mediato, purché il danno si presenti come un effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale (precisando che la “cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale”, oltre che una teoria causale è anche una teoria dell’imputazione del danno). Ne risulta insufficiente il riferimento al disposto dell’articolo 1223 Cc per escludere il risarcimento del danno morale in favore dei congiunti del leso, poiché non vi è dubbio che lo stato di sofferenza dei congiunti nel quale consiste il loro danno morale, trova causa efficiente, per quanto mediata, pur sempre nel fatto illecito del terzo nei confronti del soggetto leso.

Il principio applicato è sempre quello della regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto. Così è stato concesso il risarcimento del danno per la lesione del diritto del coniuge ai rapporti sessuali, in conseguenza di un fatto lesivo che abbia colpito l’altro coniuge, cagionandogli l’impossibilità di tali rapporti (Cassazione 6607/86). Inoltre con riguardo a fatto illecito che abbia colpito il congiunto senza causarne la morte, è stata riconosciuta la legittimazione dei prossimi congiunti ad agire nei confronti dell’autore del fatto per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle lesioni patite dal congiunto e ciò con riferimento non solo al danno patrimoniale (danno-conseguenza), ma anche allo stesso danno biologico (danno-evento, rientrante pur sempre nell’ambito dell’articolo 2043 Cc) (Cassazione 8305/96).La conclusione è che se il danno morale dei congiunti della vittima di una lesione può rientrare nell’ambito dei danni riflessi, non vi è un ostacolo alla risarcibilità per effetto della sua intima struttura. A questo punto la sentenza passa ad esaminare se un ostacolo possa essere costituito dalla struttura e/o dalla funzione della norma che lo prevede e, cioè, dell’articolo 2059 CC e dal combinato disposto di tale articolo e dell’articolo 185 CP,l e  prende atto che il recente ed incontrastato orientamento della giurisprudenza penale distingue tra la persona offesa dal reato – che è titolare del bene giuridico tutelato dalla norma – ed il danneggiato civile – che è il soggetto che dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente coincidente con la persona offesa – al quale è riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile. Alla stregua di questa impostazione ed ammessa, quindi, la legittimazione a richiedere il risarcimento del danno patrimoniale ad ogni soggetto che abbia subito un siffatto pregiudizio dal reato, sia esso il soggetto passivo o non lo sia, riconosce detta legittimazione relativamente al danno non patrimoniale nei confronti del soggetto che l’abbia subito (e quindi come tale sia danneggiato), pur senza essere il soggetto passivo del reato.

Chiariti così i termini del contrasto, le sezioni unite hanno ritenuto di comporlo optando per la seconda soluzione, quella della risarcibilità del danno morale patito dai prossimi congiunti del soggetto leso, completata e rafforzata dalle seguenti considerazioni. È innanzi tutto significativo che la giurisprudenza, nell’intento di impostare correttamente il problema, faccia fondamentale riferimento all’articolo 1223 CC, sia per la tesi più restrittiva che per quella estensiva più recente; e, soprattutto, che l’orientamento qui accolto inquadri il danno morale del congiunto nella figura del cosiddetto danno riflesso o di rimbalzo, rientrante nella previsione del suddetto articolo 1223 che, secondo tale costruzione, contemplerebbe tutti i danni conseguenti al fatto illecito secondo un criterio di regolarità causale.

[61] Cfr, tra i tanti contributi giurisprudenziali, cass. 02 febbraio 2001, n. 1516 Sez. III, Lunetta ed altra c. Min. della Difesa, in Giur.It 2002, 953-967, con nota di Bona

[62] Trib. Reggio Emilia 20 novembre 1989, Com. Scandiano c. Maglioli, in Resp. Civ. e Prev. 1991 pag. 508

[63] Tribunale di Bolzano del 15 maggio 2000 – Giudice Bisignano – Atzwanger s.p.a. c. Walter Oselini

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