l’art 115 Codice Appalti e la revisione dei prezzi
A norma dell’art. 115 del Codice Appalti (D.lgs. 163/06) rubricato “Adeguamenti dei prezzi” “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5.”
Il quarto comma lett. c) dell’art. 7 stabilisce che l’Osservatorio dei contratti pubblici “determina annualmente costi standardizzati per tipo di servizio e fornitura in relazione a specifiche aree territoriali, facendone oggetto di una specifica pubblicazione, avvalendosi dei dati forniti dall’ISTAT, e tenendo conto dei parametri qualità prezzo di cui alle convenzioni stipulate dalla CONSIP”, ed il quinto comma stabilisce come l’Istat debba rilevare i dati.
L’art. 115 include due fattispecie:
a) da una parte prevede la vera e propria revisione prezzi di cui all’art. 1664 CC (sbilanciamenti oltre il 10%);
b) dall’altra parte richiede alle amministrazioni di inserire nei capitolato clausole di adeguamento del prezzo al “fattore tempo”, ove il contratto abbia esecuzione prolungata.
La prima fattispecie si applica indipendentemente dal disposto contrattuale, la seconda ipotesi solo se reputata necessaria dall’Amministrazione e inserita nel contratto. Pertanto, ove il contratto nulla preveda o escluda tale adeguamento al passare del tempo, alla formale richiesta della controparte, unico onere per il committente è quello di aprire una istruttoria per verificare se vi siano casi di applicabilità della revisione prezzi di cui al codice civile, ossia verificare gli sbilanciamenti oltre il 10%.
Val la pena rilevare come le Sezioni Unite della cassazione, con la già citata ordinanza 15/6/2009 n. 13892 in tema di riparto di giurisdizione, abbiano statuito che “Se tale è il meccanismo per quantificare la revisione, ne consegue che – essendo sia i soggetti incaricati, sia gli elementi da apprezzare tutti provenienti dalla P.A. – ad esso è connaturato un indubbio margine di potere discrezionale nelle valutazioni, tale da consentire alla medesima amministrazione, all’esito dell’istruttoria, di negare la revisione, ove i dati convergessero sulla insussistenza di incremento prezzi”: la Suprema corte, cioè, insegna che la revisione prezzi non è un diritto dell’appaltatore, perché l’an della pretesa è un interesse legittimo connesso ad un apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione alla quale è demandata la valutazione nell’ambito di un procedimento specifico.
Ecco che emerge prepotente la ratio fondante della devoluzione di questo tipo di controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: qualora l’appaltatore privato ritenga che i prezzi in essere necessitino di una revisione in ragione del trascorrere del tempo (e quindi, fondamentalmente, un aggiornamento anti-inflazione), l’Ente pubblico deve intraprendere, riconoscendone gli estremi, la procedura per accertare l’an ed il quantum dell’eventuale revisione.
Qualora l’amministrazione non provveda, non è possibile rivolgersi al giudice ordinario (meno che meno con un ricorso per decreto ingiuntivo) per chiedere sic et simpliciter la condanna dell’Ente al pagamento della somma che il privato ha determinato unilateralmente, perché è necessario che di fronte all’inerzia eventualmente illegittima dell’Ente si pronunci il TAR, davanti al quale è possibile proporre domanda di accertamento della fondatezza della pretesa di revisione e di liquidazione del compenso revisionale.
Tutto ciò non è invece possibile al giudice civile, al quale non è consentito sostituirsi all’ente pubblico nell’attività provvedimentale, by-passando le procedure e giungendo ad una illegittima liquidazione di una somma che di per sé non è ne certa né liquida nei esigibile, perché la debenza è subordinata all’espletamento di un procedimento amministrativo. Procedimento amministrativo che, laddove in ipotesi non intrapreso o terminato in sfavore del privato da parte dell’amministrazione, può essere oggetto di sindacato da parte del giudice amministrativo, e solo da quello.
Per questi motivi, prima ancora che infondata, è inammissibile la pretesa del contraente privato di vedersi pagare revisioni di prezzo sulla base di fatture: l’appaltatore, infatti, può emettere fattura per una revisione di prezzo soltanto a seguito dell’esercizio da parte dell’ente pubblico del potere discrezionale di accordare detta revisione all’esito del procedimento amministrativo, e sulla base della quantificazione che l’ente ha fatto nel contraddittorio con il soggetto privato. Laddove questo procedimento e questo provvedimento sia mancato, qualora l’appaltatore privato ritenga di meritare il corrispettivo revisionale, non può certo emettere fattura ma deve agire davanti al giudice amministrativo per chiedere in via giurisdizionale ciò che in via amministrativa non gli è stato concesso.
In buona sostanza, l’appaltatore può emettere fattura solo sul presupposto che l’Amministrazione abbia già esercitato il potere discrezionale a lei spettante mediante l’adozione di un provvedimento attributivo o di diniego del diritto alla revisione (an debeatur), rispetto al contenuto esplicito del quale ultimo andrebbe, comunque, eventualmente, proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, l’azione di accertamento.
Senza procedimento e senza provvedimento, non è possibile per il privato appaltatore auto liquidarsi un importo a titolo di revisione del prezzo, perché ciò può fare soltanto il giudice amministrativo in sostituzione di un eventuale inerzia illegittima da parte dell’amministrazione.