INDENNIZZO E RISARCIMENTO NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO


IL RISTORO DEL DANNO TRA INDENNIZZO E RISARCIMENTO

 

 

Sommario: Premessa 5.1. L’esonero da responsabilità ex art 10 del T.U. e il danno differenziale 5.1.1. l’esonero 5.1.2. L’incidenza dell’esonero sull’applicazione del 2087 5.2. L’indennizzo del danno biologico da parte dell’INAIL 5.2.1. Il nuovo sistema 5.2.2. La questione del baréme 5.3. La questione INAIL ed il danno differenziale nel vigore della vecchia disciplina 5.3.1. INAIL e danno biologico: lo spartiacque del 1991 5.3.2. la questione della capacità lavorativa generica 5.3.3. questione INAIL e danno morale: lo spartiacque del 1994 5.4. La questione INAIL ed il danno differenziale nel vigore della nuova disciplina 5.5.  I danni risarcibili 5.5.1. Il danno patrimoniale 5.5.2. Il danno biologico 5.5.3. Il “vecchio” danno morale 5.5.4. Il “nuovo” danno non patrimoniale costituzionalizzato: La rilettura costituzionalmente orientata del 2059 5.5.5. Danno non patrimoniale e colpa presunta: nuovissime dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale 5.5.6. Il danno esistenziale 5.5.7. Danno esistenziale e art. 2087: Trib. Pisa 3 ottobre 2001 5.5.8. Il danno esistenziale approda in Cassazione: spunti critici sulla sentenza n.9009/01 della Cassazione sezione lavoro

 

 

Premessa

 

L’art 2087 CC configura obblighi di natura contrattuale a carico del datore di lavoro e di natura contrattuale è il tipo di responsabilità cui egli è soggetto in caso di violazione. D’altra parte, posto che azioni od omissioni che provochino la lesione del diritto all’integrità fisica e morale del lavoratore non possono non costituire anche violazione della clausola generale del neminem laedere di cui all’art 2043 CC, il medesimo fatto può essere imputato anche a titolo di responsabilità extracontrattuale: come noto, i due titoli di imputazione, laddove l’evento consista nella lesione di diritti della personalità, possono pacificamente concorrere e cumularsi, onde offrire al danneggiato il più ampio ventaglio di scelte processuali e sostanziali a tutela del proprio diritto.

Che la responsabilità sia di matrice contrattuale od extracontrattuale, la sanzione per la violazione dei doveri di tutela imposti dall’art. 2087 o della clausola generale di cui all’art. 2043 sarà comunque quella del risarcimento del danno.

Ci9ò posto, se la tematica del danno risarcibile è complessa in ogni campo della RC, nel nostro settore le cose sono particolarmente complicate dalla complessa rete di rapporti ed interazioni tra l’ordinario sistema risarcitorio civilistico e quello indennitario pubblicistico. Occorre quindi esaminare alcuni snodi nevralgici nei rapporti tra i due sistemi: la questione dell’esonero da responsabilità per i fatti coperti da assicurazione obbligatoria, la questione INAIL e la connessa tematica del c.d. «danno differenziale» che è poi il punto cruciale.

Diciamo subito che il danno differenziale è la categoria che ricomprende tutte quelle voci di danno che – non coperte dall’assicurazione obbligatoria INAIL – restano a carico del datore. Esso ha una estensione diversa a seconda che si tratti di infortuni verificatisi o di malattie professionali denunciate prima o dopo lo spartiacque determinato dall’art. 13 della legge 38 del 2000, ossia prima o dopo la data del 25 luglio 2000 in cui è entrato in vigore il decreto ministeriale 12 luglio 2002 di approvazione delle nuove tabelle per l’indennizzo del danno biologico in sede di assicurazione obbligatoria INAIL, quelle delle menomazioni, dell’indennizzo del danno biologico, dei coefficienti.

 

5.1. L’esonero da responsabilità ex art 10 del T.U. e il danno differenziale

 

5.1.1. L’esonero

 

L’art 10 del T.U. 1124/65 prevede che per il solo fatto di essere coperto dall’assicurazione obbligatoria[1] presso l’INAIL il datore di lavoro sia esonerato dalla responsabilità civile per gli infortuni, a meno che non venga irrogata sanzione penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato al datore stesso o a coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro.

L’accertamento del fatto-reato è normalmente riservato al giudice penale ma può essere e effettuato dal giudice civile sia quando sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte dell’imputato, amnistia o prescrizione sia quando la formale declaratoria (da parte del giudice penale) di una di dette cause estintive sia mancata per essere le medesime intervenute prima dell’esercizio dell’azione penale.

Circa il quantum, la norma dell’art 10 pone precisi vincoli: non spetta alcun risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità INAIL mentre, quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede l’indennità[2].

Dopo aver erogato l’indennizzo, l’INAIL può esercitare l’azione di surroga ex art. 1916 CC nei diritti del danneggiato contro il terzo responsabile estraneo al rapporto assicurativo, oppure l’azione di regresso ai sensi degli articoli 10 e 11 del T.U. contro i soggetti civilmente responsabili.

Il disposto dell’art 10 è stato via via eroso per opera della Corte Costituzionale. Rimandando alla nota [3], ricordiamo qui che la Consulta [4] ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, l’art. 10 nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio dell’azione da parte dell’infortunato, l’accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile sia nel caso in cui, non essendo stata promossa l’azione penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia provvedimento di archiviazione, sia in quello in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.

Si rileva inoltre come, a norma dell’art. 10, la responsabilità civile del datore insorga solo se il fatto-reato sia un delitto perseguibile d’ufficio, e non anche a querela: posto che normalmente nel fatto di infortunio o malattia professionale è dato individuare la fattispecie criminosa delle lesioni, a norma dell’art. 10 non vi sarà RC datoriale se si tratti di lesioni dolose lievi (art 582 CP secondo comma) o colpose lievi (art. 590 primo comma) che, per l’appunto, sono reati perseguibili a querela.

La norma prevedeva che il fatto-reato venisse accertato, il che escludeva – secondo l’interpretazione comune – la possibilità di imputare i danni al datore nei casi in cui le norme di diritto civile avrebbero consentito di dichiararne la responsabilità per colpa presunta.

Oggi ci pare che la questione potrebbe andare incontro ad un ripensamento, in considerazione del recentissimo revirement della Cassazione sulla risarcibilità del danno morale anche in assenza di accertamento della colpa (e quindi senza che il fatto possa configurarsi completa fattispecie criminosa, posto che elementi essenziali del reato sono la condotta, il nesso causale e l’elemento soggettivo del dolo o della colpa) nei casi in cui la colpa dell’agente sia presunta ai sensi dell’art. 2054. La questione infatti presenta parecchie analogie con quella che ci interessa, dominata da una norma ad inversione dell’onere probatorio come il 2087: sappiamo che la responsabilità contrattuale dell’imprenditore derivante dal mancato adempimento dell’obbligo stabilito dall’art. 2087 di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti, può concorrere con la responsabilità extracontrattuale dello stesso datore di lavoro, che sussiste qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano alla persona del lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro. In tali ipotesi il danneggiato ha a propria disposizione due distinte azioni, delle quali quella contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 CC (e, si badi, limita il risarcimento ai danni prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione) mentre l’azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva. Attenzione, però, che “l’art. 2087 CC non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”[5]. Ma torneremo sul punto alla fine di questo capitolo, parlando specificamente dei danni risarcibili.

 

5.1.2 L’incidenza dell’esonero sull’applicazione del 2087.

 

La presenza di una clausola di esonero ampia come quella dell’art. 10 del T.U. per molto tempo ha ridotto la portata dell’art. 2087 CC a criterio di imputazione di gran lunga residuale, benché immanente: “l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall’art. 10 del d.p.r. n. 1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall’assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro, viene in rilievo, come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell’art. 2087 CC[6].

La norma codicistica iniziò ad avere un significato imponente presso le aule di giustizia solo dopo che il sistema della R.C. ebbe ricevuto uno scossone dall’avvento rivoluzionario della stagione giurisprudenziale del danno biologico, basata sulla nuova teorica della “lettura costituzionale” delle norme di imputazione, e dovette ancora attendere alcuni anni prima che gli interventi della Corte Costituzionale nel 1991 dotassero il sistema misto tort system / social security system di una certa coerenza operativa.

Prima dell’avvento del danno biologico, per il lavoratore infortunato non c’era normalmente particolare interesse a che l’art. 2087 consentisse sulla carta di ottenere pieno ristoro dei danni subiti, perché l’esonero copriva gran parte di essi.

Al di fuori dell’esonero si collocò per un periodo il settore residuale delle c.d. malattie non tabellate, che tuttavia sparì per effetto dell’intervento della Corte Costituzionale che fece rientrare anche tali malattie professionali nell’ambito della copertura INAIL [7]: prima d’allora secondo la giurisprudenza mentre per le malattie professionali tabellate (ossia previste dalla tabella all. 4 al T.U. n. 1124 del 1965) la responsabilità civile del datore di lavoro nei confronti del lavoratore sussisteva unicamente in caso di accertamento della responsabilità penale sua o della persona di cui egli debba rispondere civilmente, per le malattie non tabellate trovava integrale applicazione l’art. 2087 [8].

Vi era il settore delle fattispecie di lesioni non previste dalla normativa infortunistica e quindi escluse dall’assicurazione obbligatoria: “Ai sensi dell’art. 2087 CC, che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l’adozione – ed il mantenimento – non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico ma anche di misure atte … a preservare i lavoratori” anche in relazione ad eventi non coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al T.U. 1124 del 1965 “come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità di verificazione del relativo rischio” secondo un orientamento non pacifico [9].

Sotto il profilo dell’inquadramento dogmatico e operativo, la giurisprudenza “ante-danno biologico” era costante nel ritenere che l’art. 10 configurasse un diritto speciale per gli infortuni ispirato a ragioni di equità e solidarietà sociale e basato su principi diversi da quelli di diritto comune che dalla disciplina speciale veniva sostituito [10].

Il beneficio dell’esonero accordato al datore era configurato come il sinallagma dell’obbligo stabilito dall’art. 27 del T.U. di farsi carico dell’intero costo dell’assicurazione obbligatoria che, per il solo fatto di esser istituita, costituiva una garanzia per il lavoratore che se ne vedeva coperto in virtù del semplice rapporto lavorativo [11], ed indipendentemente dall’avvenuto versamento contributivo da parte del datore [12]: “il rapporto giuridico di assistenza sociale contro gli infortuni e le malattie professionali sorge automaticamente ex lege all’atto dell’assunzione del lavoratore da parte del datore di lavoro, è anche nel caso in cui quest’ultimo abbia omesso di ottemperare agli adempimenti necessari per la costituzione del rapporto assicurativo e non abbia quindi versato i relativi contributi. Pertanto, l’azione del lavoratore diretta ad ottenere le prestazioni assistenziali può essere esercitata nei confronti del solo istituto assicuratore senza che sia necessaria la partecipazione al giudizio del datore di lavoro il quale risponde nemmeno a titolo di risarcimento dei danni, per la omessa assicurazione, essendo in ogni caso garantito per legge il conseguimento da parte del lavoratore delle dovute prestazioni assicurative[13].

Secondo l’interpretazione corrente, la disciplina di diritto comune data dall’art. 2087 e quella di diritto speciale data dall’art. 10 operavano su piani diversi ossia quello della prevenzione e quello del risarcimento: la prima definiva i margini della responsabilità, mentre la seconda ritagliava all’interno di tali margini quelli più ristretti della rilevanza risarcitoria, creando un meccanismo peculiare di risarcimento posto a carico dell’assicurazione sociale. La giurisprudenza riteneva non esservi incompatibilità tra art. 2087 e art. 10 in quanto la violazione della norma comune non dava vita ad una forma di responsabilità autonoma ma costituiva elemento di colpa rientrante nella figura generale della responsabilità per fatto illecito prevista dal 2043, responsabilità che restava assorbita nell’obbligo assicurativo eccetto che per le ipotesi in cui non operasse l’esonero: “l’omissione delle cautele previste dall’art 2087 ove concretizzi un reato perseguibile d’ufficio, sovrappone al rischio connaturale al lavoro svolto nell’impresa (coperto dall’assicurazione obbligatoria) una diversa causa di danno che può divenire fonte di responsabilità civile per l’imprenditore[14].

La sostanza era che l’esonero si riduceva, di fatto e per effetto degli interventi della Corte Costituzionale sulla questione dell’accertamento penale della responsabilità, ai casi di reato punibile a querela ed ai casi di colpa presunta.

Il problema per il danneggiato si poneva semmai per quanto riguardava il profilo contenutistico dell’obbligo risarcitorio posto in capo al datore in quanto esso – essendo prematuri i tempi per parlare di danno biologico – era tutto (o quasi) assorbito dall’obbligazione indennitaria a carico dell’INAIL: in effetti la disciplina della responsabilità datoriale costituiva, più che per il danneggiato il quale non poteva aspirare ad ottenere dal datore molto più di quanto gli fosse spettato a titolo di indennizzo dall’INAIL, una garanzia per l’Istituto assicuratore che con le azioni si surroga e regresso poteva attivarsi per recuperare quanto corrisposto.

 

5.2. L’indennizzo del danno biologico da parte dell’INAIL

 

A norma del testo originario dell’art. 66 del T.U. 1124 del 1965 le prestazioni erogate dall’Inail erano: 1) un’indennità giornaliera per l’inabilità temporanea [15]; 2) una rendita per l’inabilità permanente; 3) un assegno per l’assistenza personale continuativa; 4) una rendita ai superstiti e un assegno una volta tanto in caso di morte; 5) le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici; 6) la fornitura degli apparecchi di protesi.

L’art 13 della legge 38/00 ha innovato profondamente una parte di tale disciplina prevedendo che sia l’INAIL ad indennizzare il danno biologico conseguente ad infortuni sul lavoro verificatisi e a malattie professionali denunciate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale d’approvazione del tabelle delle menomazioni e dei valori di indennizzo.

L’art. 13 “in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento” innanzitutto definisce “in via sperimentale” il danno biologico come la lesione all’integrità psicofisica della persona suscettibile di valutazione medico legale, chiarendo sin da subito che “le prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”.

La definizione di danno biologico data dalla legge [16] pare condivisibile, risultando sostanzialmente quella offerta dalla scienza medico-legale e fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

La nuova norma prevede che, in luogo dell’erogazione della rendita per l’inabilità permanente stabilita dal testo originario dell’art. 66 numero 2 del T.U., l’INAIL eroghi un indennizzo la cui misura è data dalla apposita “tabella indennizzo danno biologico” da applicarsi in considerazione dell’età dell’assicurato al momento della guarigione clinica).

La tabella, unica per tutti i settori di attività (industria, artigianato, terziario, agricoltura) determina l’entità dei risarcimenti da riconoscere per questo danno nei vari casi, ed è impostata sui principi fondamentali del sistema a punto variabile, invenzione giurisprudenziale poi recepita dal legislatore del 2001 anche per le micropermanenti da sinistro stradale. L’indennizzo è “areddituale” (prescinde dal reddito del danneggiato poiché considera solo la menomazione, che lede chiunque nello stesso modo), crescente in funzione della gravità della menomazione (il punto-base è di euro 826,33), decrescente in funzione dell’età (la tabella prevede undici scaglioni classi d’età di 5 anni ciascuno), variabile in funzione del sesso (tiene conto, con importi più alti, della maggiore durata della vita media delle donne rispetto agli uomini).

La tabella è divisa in due parti corrispondenti alla due fascie ultra-franchigia, quella 6-15% e quella over 16%: con la prima si liquida l’indennizzo in capitale, con la seconda la quota di rendita vitalizia relativa al danno biologico. V’è infatti da ribadire che, con la nuova disciplina, si individuano tre fasce di trattamento del danno biologico:

1) prima fascia, menomazioni fino al 5 %: franchigia assoluta (l’INAIL nulla corrisponde), che nella disciplina previgente era al 10%

2) seconda fascia, menomazioni di grado pari o superiore al 6 % ed inferiore al 16 %: l’INAIL eroga l’indennizzo in capitale, il cui importo varia in considerazione del sesso, all’età, al grado di invalidità

3) terza fascia, menomazioni dal 16 %: l’INAIL eroga l’indennizzo in rendita (il cui importo varia in funzione del gradi di invalidità, non avendo rilievo l’età ed il sesso come nei casi in cui si tratti di capitalizzare una rendita in funzione delle presunta vita residua), maggiorato di un’ulteriore quota di rendita per l’indennizzo delle conseguenze delle stesse, commisurata al grado della menomazione, alla retribuzione dell’assicurato e al coefficiente di cui all’apposita “tabella dei coefficienti“, che costituiscono indici di determinazione della percentuale di retribuzione da prendere in riferimento per l’indennizzo delle conseguenze patrimoniali, in relazione alla categoria di attività lavorativa di appartenenza dell’assicurato e alla ricollocabilità dello stesso.

In buona sostanza la tabella dei coefficienti misura la capacità reddituale rimasta dopo l’infortunio, ossia l’incidenza dell’evento sulla possibilità di continuare l’attività lavorativa.

La retribuzione, determinata con le modalità e i criteri previsti dal testo unico, viene moltiplicata per il coefficiente, e la corrispondente quota di rendita, rapportata al grado di menomazione, è liquidata con le modalità e i criteri di cui all’articolo 74 del T.U.[17]. La tabella dei coefficienti da utilizzare per la determinazione della percentuale di retribuzione da prendere a base per l’indennizzo delle conseguenze della menomazione della seconda fascia funziona per parametri dati dalla “categoria di attività lavorativa di appartenenza dell’assicurato” (definita come “ il complesso delle attività adeguate al suo patrimonio bio-attitudinale-professionale: cultura, età, sesso, condizione psicofisica, esperienze lavorative, ecc.”) e dalla “ricollocabilità dell’assicurato” (intesa come possibilità che le residue capacità psicofisiche siano utilizzabili per attività lavorative anche mediante interventi di supporto e ricorso a servizi di sostegno).

Si noti che è prevista la possibilità, con motivato parere medico-legale sia in sede di prima valutazione dei postumi che in sede di revisione, di attribuire o confermare il coefficiente previsto in una fascia di grado superiore.

La tabella è basata su criteri astratti e suddivide i lavoratori in quattro categorie a seconda della gravità della menomazione. La prima comprende i danni fino al 25%, la seconda fino al 50%, la terza fino all’85%, la quarta fino al 100%.

Ad ogni categoria (rectius, ad ogni subcategoria di cui ognuna delle prime tre categorie è composta) la tabella assegna un coefficiente, che va dallo 0,4 all’1 della retribuzione. Per calcolare la rendita annuale occorrerà quindi individuare la retribuzione di riferimento e poi moltiplicarla per il coefficiente relativo alla fattispecie. E’ fatta salva dalla legge la possibilità attribuire un coefficiente superiore a quello previsto per la menomazione, previa adeguata motivazione medico-legale.

Nel caso in cui la menomazione non pregiudichi gravemente né l’attività svolta né quelle della categoria di appartenenza, per lesioni tra il 16 e il 20 % si applica il coefficiente 0,4 mentre per lesioni da 21 a 25 % il coefficiente 0,5.

Se la menomazione pregiudica gravemente o impedisce l’attività svolta, ma consente comunque altre attività della categoria di appartenenza anche mediante interventi di supporto e ricorso a servizi di sostegno, per lesioni tra il 26 e il 35 % si applica il coefficiente 0,6 mentre per lesioni da 36 a 50 % il coefficiente di 0,7.

Se la menomazione consente soltanto lo svolgimento di attività lavorative diverse da quella svolta e da quelle della categoria di appartenenza, compatibili con le residue capacità psicofisiche anche mediante interventi di supporto e ricorso a servizi di sostegno, per lesioni tra il 51 e il 70 % si applica il coefficiente 0,8 mentre per lesioni da 71 a 85 % il coefficiente di 0,9.

Se infine la menomazione impedisce qualunque attività lavorativa, o consente il reimpiego solo in attività che necessitano di intervento assistenziale permanente, continuativo e globale, per lesioni tra l’86 e il 100 % si applica il coefficiente 1.

 

5.2.2. La questione del baréme

 

In ogni campo della RC, il punto di partenza per la determinazione del danno biologico è la valutazione medico-legale della lesione all’integrità psico-fisica, che ormai comunemente viene espressa in termini di punti percentuali (fatto 100 % il “valore” della persona integra, ante-lesione).

Si capisce allora che la questione del baréme medico legale, ossia del parametro valutativo che il medico legale utilizza per arrivare a quella espressione numerica [18], diventa il punto nevralgico sul quale ci si deve misurare [19]. Le tabelle di invalidità svolgono la indispensabile funzione interdisciplinare di strumento tipizzato ed orientativo per la stima della lesione della salute e costituiscono una sorta di communis opinio frutto di un metodo scientifico di indagine basato su diverse competenze specialistiche mentre, sotto il profilo probatorio, possono essere considerate alla stregua delle “massime di esperienza” e, quindi, poste a base del procedimento di liquidazione tabellare in relazione al combinato disposto degli artt. 115 CPC e 2697 CC.

Mentre in campo RC si assiste al proliferare di varie tabelle medico-legali la più quotata della quali è quella espressa nella “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente” ad opera della SIMLA, Società Italiana di Medicina Legale, diciamo che l’unico baréme medico legale dotato di valenza ed efficacia normativa [20] è proprio quello dato dalla tabella delle menomazioni per la valutazione del danno biologico contenuta nel d.m. del 12 luglio 2000 [21].

La tabella si compone di 387 voci tra le quali è pure contemplato il danno psichico (menomazioni da 180 a 190), rispetto alle circa 50 delle due precedenti tabelle (una per l’industria e l’altra per l’agricoltura, allegate al T.U. 1124 del 1965) che vengono quindi sostituite, ed è finalizzata, come ogni baréme medico-legale, a realizzare l’uniformità dei giudizi medici in merito all’entità dei postumi invalidanti oltre che a fissare i criteri da adottare nei casi di danni composti di più menomazioni nonché dei danni policroni professionali, ossia quelli che nel tempo colpiscono più volte lo stesso lavoratore con più postumi di natura permanente.

A completamento del catalogo del danno biologico vi sono anche tabelle “speciali”, per la valutazione di particolari danni quali ipoacusia, pneumopatie, deficit dell’acuità visiva.

 

Entriamo ora nel vivo della questione sul danno differenziale per verificare quali voci di danno siano a carico del social security system e quali trovino soddisfazione nei confronti del responsabile in sede civile, dividendo la materia del rapporto tra indennizzo e risarcimento in due parti cronologicamente distinte dallo spartiacque del nuovo art. 13 che, sotto tale profilo, ha rivoluzionato il sistema indennitario.

 

5.3. La questione INAIL ed il danno differenziale nel vigore della vecchia disciplina

 

Iniziamo col considerare le fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione dell’art. 13.

A partire dagli anni ’80, da quando cioè assunse autonoma pregnanza risarcitoria il danno biologico (sulla scia dell’evoluzione che dalle sentenze delle corti di merito, a partire da quella genovese, alle pronunce del supremo consesso portò nel 1986 al riconoscimento da parte della Consulta di tale danno quale categoria del “diritto vivente”), si presentò agli operatori il problema della convivenza e dei rapporti tra i due meccanismi di tutela: da un lato il sistema assicurativo per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali gestito dall’INAIL connotato come un social security system, dall’altro lato il sistema risarcitorio fondato sulle regole della responsabilità civile che si configurava come un tort system retto dalle regole ordinarie.

Fu così che si impose la “questione INAIL[22], ossia il dibattito circa il modo di conciliare le diverse implicazioni dei due sistemi, divenuto di vitale importanza all’indomani della svolta del danno biologico.

Il fulcro del problema era se il ristoro del danno biologico e del danno morale fosse o meno da ricomprendersi nelle indennità corrisposte dall’Inail ed andasse quindi soggetto alla clausola di esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro di cui all’art. 10 del T.U.[23]

 

5.3.1. INAIL e danno biologico: lo spartiacque del 1991

 

Fu la Corte Costituzionale a porre rimedio alla diatriba con tre pronunce del 1991: la n. 87[24], la n. 356[25], la n. 485[26].

Con la 87 la Consulta affermò che “il danno biologico, in sé considerato, deve ritenersi risarcibile da parte del datore di lavoro secondo le regole che governano la responsabilità civile di quest’ultimo”, dichiarando pertanto inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 74 del T.U. n. 1124 del 1965 in riferimento agli artt. 3, 32 comma 1°, 35 comma 1° e 38 comma 2° della Costituzione.

Con la 356 la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 1916 CC, che prevede la surrogazione dell’assicuratore (che abbia pagato l’indennizzo) nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili, nella parte in cui consentiva all’assicuratore di avvalersi nell’esercizio del diritto surroga anche delle somme dovute dal responsabile all’assicurato a titolo di risarcimento del danno biologico: “allorquando la copertura assicurativa, in virtù delle norme di legge o di contratto che la disciplinano, non abbia ad oggetto il danno biologico, oppure si limiti ad indennizzare la perdita o riduzione di alcune soltanto delle capacità del soggetto (come avviene per l’attitudine al lavoro nel regime dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), consentire che l’assicuratore, nell’esercizio del proprio diritto di surroga nei confronti del terzo responsabile, si avvalga anche del diritto dell’assicurato al risarcimento del danno biologico non coperto dalla prestazione assicurativa, significa, appunto, sacrificare il diritto dell’assicurato stesso all’integrale risarcimento di tale danno, con conseguente violazione dell’art. 32 della Costituzione …. Espropriare totalmente o parzialmente il danneggiato-assicurato, in questi casi, del diritto al risarcimento da parte del terzo responsabile del danno biologico non coperto dall’assicurazione, in ragione delle indennità assicurative che egli abbia percepito, non può essere raffigurato come una operazione di mera compensazione, per cui egli viene a ricevere in meno da una parte solo quanto in più dall’altra. Una volta che tanto l’imputazione della prestazione assicurativa a specifiche componenti di danno e non ad altre, quanto la determinazione dei criteri per la liquidazione di essa, derivino dalla disciplina normativa del rapporto assicurativo, consentire l’imputazione delle somme erogate, agli effetti della surroga, a ragioni risarcitorie diverse implica necessariamente un sacrificio di queste ultime (non consentito allorquando le stesse siano assistite da un riconoscimento costituzionale).”

In relazione alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, 1° e 2° comma, del T.U. n. 1124 del 1965 in riferimento agli artt. 3, 32, 38 Cost., nella parte in cui esonerava il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, la Consulta evidenziava come l’assicurazione Inail non coprisse il danno biologico, e che pertanto l’esonero aveva ad oggetto i soli danni strettamente connessi alla diminuzione della capacità lavorativa o alla perdita di reddito.

La Corte, ribadendo un orientamento già espresso in passato[27], respingeva un nuovo attacco all’istituto dell’esonero denunciato per contrasto con gli artt. 3, 32 e 38 Cost.), osservando che il social security system in materia di infortuni sul lavoro è fondato su equilibri di interessi, di diritti, di prestazioni e che pertanto “l’integrale eliminazione dell’istituto dell’esonero – ormai circoscritta ad ipotesi assai limitate – comporterebbe una ristrutturazione del sistema che non potrebbe che essere opera del legislatore”.

La Corte ha modo di ricordare il principio che regge tutta le teorica del danno biologico costituzionalizzato, ossia che la discrezionalità del legislatore nell’attribuire differente tutela risarcitoria a situazioni diverse trova limite invalicabile quando vengano in considerazioni situazioni soggettive costituzionalmente garantite quali il diritto alla salute (questo è l’impianto di partenza della sentenza 184 del 1986):  se quella risarcitoria è la minima delle sanzioni che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse, la legge ordinaria che la rifiutasse in caso di lesione di un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, si troverebbe a non garantirlo affatto[28].

Benché la copertura indennitaria INAIL non potesse[29] dirsi strettamente limitata al solo danno patrimoniale da perdita o riduzione di reddito in quanto prescindente dalla sussistenza di una effettiva perdita o riduzione di guadagno, la Corte ha chiarito come essa non avesse ad oggetto tutto il danno che dall’infortunio potesse derivare al lavoratore: l’indennizzo era infatti commisurato ai soli riflessi negativi sull’attitudine al lavoro, senza alcuna presa in considerazione delle implicazioni più propriamente personali tipiche del danno biologico, attinenti alla sfera delle estrinsecazioni della personalità dell’individuo.

E’ per questo motivo che l’istituto dell’esonero previsto dall’art. 10 del T.U. non può riguardare il risarcimento del danno biologico che come tale non aveva alcuna copertura da parte dell’INAIL, a pena di violazione dell’art. 32 Cost.

La soluzione adottata dalla Corte fu che l’art. 10 dovesse essere interpretato alla luce “del fondamentale criterio ermeneutico per cui, se fra più significati possibili uno solo è conforme ai principi costituzionali, a questo va data la preferenza da parte dell’interprete, cosicché una legge non può essere ritenuta invalida, perché incostituzionale, fino a quando ne sia possibile una interpretazione costituzionalmente conforme”. L’esonero opera solo nell’ambito dell’oggetto dell’assicurazione INAIL, e non riguarda i danni che l’assicurazione obbligatoria lascia pacificamente fuori dalla sua portata: “se non si fa luogo alla prestazione previdenziale, non vi è assicurazione: mancando l’assicurazione, cade l’esonero … da ciò discende che il danno del datore di lavoro secondo le regole che governano la responsabilità civile di quest’ultimo”.[30]

Questa la questione cui la Corte rispose, ritenendola fondata in base agli stessi principi enunciati con la 356, con la sentenza n. 485: “La questione di costituzionalità che la Corte è chiamata a decidere ha per oggetto l’art. 10, sesto e settimo comma, nonchè l’art. 11, primo e secondo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. Quest’ultima disposizione, secondo la ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale – nell’attribuire all’INAIL, nei casi previsti dall’art. 10, il diritto di regresso, contro le persone civilmente responsabili del reato che ha provocato l’infortunio, per il recupero delle somme pagate a titolo di indennità e delle spese accessorie, nei limiti del risarcimento spettante all’infortunato – consente all’istituto di avvalersi, per la determinazione di tale limite, anche delle somme che l’infortunato ha diritto di pretendere a titolo di risarcimento del danno biologico; e ciò benché la prestazione assicurativa erogata corrisponda soltanto alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica e non alla menomazione dell’integrità psico-fisica della persona, considerata in sé e per sé e nella sua globalità e non riguardata soltanto sotto il profilo dell’attitudine a produrre ricchezza. Conseguentemente, il sesto ed il settimo comma dell’art. 10 stabiliscono che, in caso di infortunio sul lavoro dipendente da reato, il lavoratore assicurato ha diritto al risarcimento del danno biologico non compreso nella garanzia dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, calcolato secondo i criteri civilistici e complessivamente considerato superi l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIL”.

La Consulta ribadì come il danno biologico dovesse essere risarcito in modo integrale e dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, 6° e 7° comma, del T.U del 1965 nella parte in cui prevedeva che il lavoratore, o i suoi aventi causa, avessero diritto al risarcimento del danno biologico solo se il danno risarcibile, complessivamente considerato, superasse l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIl; dichiarò altresì costituzionalmente illegittimo l’art. 11, primo e secondo comma, del T.U. nella parte in cui consentiva all’INAIL di avvalersi, nell’esercizio del diritto di regresso contro le persone civilmente responsabili, anche delle somme dovute al lavoratore infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non correlato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica.

Tuttavia, la Corte perse l’occasione di fare chiarezza su di un punto che poteva esser cruciale nella tematica del danno differenziale, quando affermò “non conferente in questa sede è il rilievo secondo cui il giudice a quo avrebbe erroneamente confuso la lesione della capacità lavorativa con la riduzione del reddito, con il risultato di porre nel nulla il risarcimento della incapacità lavorativa generica ovvero di ritenerla indennizzabile quale danno biologico. Non spetta alla Corte, in questa sede, decidere se la perdita o riduzione della capacità lavorativa (generica o specifica) rappresenti un danno risarcibile anche quando non determini in concreto alcuna perdita di reddito (con conseguente possibilità, per l’INAIL di avvalersi di questo credito risarcitorio ai fini del regresso). Quel che la Corte ha affermato e che qui ribadisce è che il principio costituzionale dell’integrale e non limitabile risarcibilità del danno biologico, implica che l’INAIL non può avvalersi ai fini dell’azione di regresso, delle somme che il responsabile deve all’infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico non collegato alla riduzione o perdita della capacità lavorativa generica”.

 

5.3.2. La questione della capacità lavorativa generica.

 

L’INAIL avrebbe dunque potuto conservare il diritto di avvalersi, nelle azioni di regresso e di surroga, di una parte delle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno biologico ossia di quella porzione che si riferisce alla riduzione della capacità lavorativa generica: il danno biologico era sì intoccabile, ma fatta eccezione per quella sua particolare componente data dalla capacità lavorativa generica [31]. Secondo certa giurisprudenza [32] la misura differenziale derivava dunque dal raffronto tra l’ammontare complessivo del risarcimento e quello delle indennita’ liquidate dall’INAIL, al fine di evitare una ingiustificata locupletazione in favore del danneggiato il quale altrimenti percepirebbe per la medesima lesione sia il risarcimento sia le indennità: “l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilita’ civile per i danni subiti dal lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al danno differenziale riguardassero solo il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica ma non quelle componenti del danno che non formavano oggetto della copertura assicurativa, quali il danno biologico ed il danno morale, l’integrale risarcimento dei quali poteva sempre essere richiesto autonomamente indipendentemente dall’entita’ dell’indennizzo assicurativo, a nulla rilevando che quest’ultimo, in conseguenza dei peculiari criteri di determinazione sulla base di coefficienti predeterminati, superasse il risarcimento astrattamente ottenibile secondo i criteri civilistici di liquidazione del danno patrimoniale, e restando esclusa, per la diversita’ del titolo e dei soggetti debitori, qualunque compensazione fra le somme dovute per l’uno e per l’altro dei titoli suddetti” [33].

Quell’orientamento riteneva equo ripartire il danno biologico in danno collegato alla riduzione o perdita della capacità di lavoro generica (rientrante nel danno indennizzato dall’Inail e quindi nella sfera di applicazione dell’esonero ex art. 10 comma primo del T.U. n. 1124/65 del datore di lavoro dalla responsabilità civile verso il lavoratore danneggiato) e danno biologico puro (che, essendo estraneo all’assicurazione Inail e quindi all’esonero, è suscettibile di essere richiesto dal lavoratore direttamente nei confronti del datore di lavoro danneggiante).

V’è però da segnalare positivamente che si è quasi subito sviluppato un orientamento (divenuto poi maggioritario) che tende a recepire le critiche mosse sul piano operativo alla “tangibilità” da parte dell’INAIL in sede di surroga di quella particolare componente del danno biologico data dal danno alla capacità lavorativa generica: “l’INAIL, a seguito della modifica normativa conseguente ad alcune decisioni della Corte costituzionale (nella specie n. 356 del 1991), non può surrogarsi all’assicurato per le somme dovutegli dal responsabile del sinistro stradale per risarcimento del danno biologico non soltanto se questo non è collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica, ma altresì se, pur essendovi tale collegamento, è difficile scindere tale voce dall’unicum che costituisce il danno biologico[34]. Ancor più esplicitamente si legge in una recente e condivisibilissima sentenza[35]: “in tema di rivalsa dell’Inail nei confronti dei terzi responsabili del danno cagionato al lavoratore assistito, non può riconoscersi in favore del predetto Ente il diritto alla somma corrispondente a quella parte della liquidazione del danno biologico relativa alla perdita della capacità lavorativa generica intesa come menomazione potenziale e reddituale, che è inclusa nella lesione della salute, e non può essere espunta dalla globalità della stessa, comprensiva di altre voci interrelazionali (come il danno alla vita di relazione, quello per la perdita di concorrenzialità, di chances in campi non lavorativi ma socialmente rilevanti). Ne consegue la inesistenza di un “danno biologico previdenziale patrimoniale” sul quale l’Inail abbia facoltà di rivalersi, in quanto tale riconoscimento importerebbe un sacrificio del diritto dell’assicurato all’integrale risarcimento del danno, garantito dall’art. 32 cost. e dalla legislazione vigente. La predetta capacità lavorativa generica, che appartiene alla sfera inviolabile della persona, e la cui tutela spetta in via esclusiva al danneggiato, è, infatti, ontologicamente differente da quella, che, per prassi, ha una denominazione analoga, intesa come attitudine al lavoro, la cui menomazione, che è causa di perdita patrimoniale da mancato guadagno, dà diritto alle prestazioni INAIL”.

Si è quindi precisato [36] che è riservata in via esclusiva al danneggiato anche quella parte del danno biologico relativa alla perdita della capacità lavorativa generica, che è inclusa nella lesione della salute e non può essere espunta dalla globalità della stessa, pena il sacrificio del diritto del danneggiato all’integrale risarcimento del danno garantito dall’art. 32 Cost. Infatti la capacità lavorativa generica, che appartiene alla sfera inviolabile della persona e la cui tutela spetta in via esclusiva al danneggiato, è ontologicamente differente da quella, che, per prassi, ha una denominazione analoga, intesa come attitudine al lavoro, la cui menomazione, che è causa di perdita patrimoniale da mancato guadagno, dà diritto alle prestazioni INAIl.

Molto interessante una decisione del Tribunale di Torino [37] che arriva ad escludere la tangibilità del risarcimento del danno alla capacità lavorativa generica per altra via, ossia sottoponendo a critica il sillogismo per cui “1) la surroga è esclusa solo per le somme dovute a titolo di danno biologico che non costituisca oggetto della copertura assicurativa; 2) l’INAIL assicura l’attitudine al lavoro, essendo per legge (art. 74, T.U. n. 1124/1965) obbligato a indennizzare l’inabilità permanente lavorativa, che è (come sopra premesso) componente del danno alla salute; 3) ergo, la surroga non è esclusa per quella frazione di danno alla salute che attiene alla lesione della capacità lavorativa generica”. Vero tale sillogismo, osserva il Tribunale, emerge la necessità di individuare nell’ambito del risarcimento del danno biologico la quota relativa al danno alla capacità lavorativa generica, come tale riferibile all’oggetto della copertura assicurativa, e quindi suscettibile di essere aggredita dall’Istituto.

La difficoltà di tale operazione di scorporo sarebbe superabile con il ricorso alla valutazione equitativa.

Ciò detto, il Tribunale osservava come fosse preferibile aderire all’orientamento della totale intangibilità delle somme liquidate a titolo di danno biologico dalla rivalsa INAIL, sulla base di una considerazione opinabile ma di un certo fascino, consistente nel negare che la capacità lavorativa generica si situi nell’ambito del danno biologico come sua quota componente. Certo, si tratta di negare un fatto storico-giurisprudenziale piuttosto pacifico, ossia che all’indomani della “rivoluzione del danno biologico” del 1986 si sia verificato il noto fenomeno dell’assorbimento nel danno biologico di tutta una serie di voci di danno (tra cui quello alla capacità lavorativa generica) che prima avevano una propria autonomia [38].

Certo anche che il ragionamento del Tribunale non è peregrino nel sostenere che danno alla salute ed danno alla capacità lavorativa sono concetti assolutamente eterogenei sotto il profilo ontologico, in quanto “la capacità lavorativa (generica o anche specifica) … costituisce nozione rilevante nell’alveo della scienza medico-legale e … assume una rilevanza giuridica esclusivamente nell’ambito previdenziale (o semmai giuslavoristico, ai fini della ripercussione dell’invalidità lavorativa sulla possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro subordinato); viceversa la capacità lavorativa appare, di per sé, nozione ininfluente in tema di responsabilità civile, ove assume invece rilievo giuridico il solo lucro cessante, quale effettiva conseguenza della compromissione dell’idoneità produttiva dell’individuo. In altri termini, la capacità lavorativa è nozione non dotata di valenza autonoma sotto il profilo civilistico, se svincolata dalle sue conseguenze reddituali, in chiave di lucro cessante”.

Ma il ragionamento si fa ancor più raffinato quando, rifacendosi al costrutto espresso dalla sentenza Corte Cost. n.184 del 1986, giunge a ricostruire il danno alla capacità lavorativa quale danno-conseguenza (pur non coincidente necessariamente con l’altro danno-conseguenza, quello patrimoniale da lucro cessante) che è cosa diversa dal danno biologico che è danno-evento. Il discorso è interessante, ma forse prova troppo perché parte da un presupposto opinabile ossia che il danno alla capacità lavorativa generica sia un danno patrimoniale piuttosto che una componente (“patrimonializzante”, se vogliamo) del danno biologico, e perché si avvale della distinzione danno-evento / danno-conseguenza al di fuori dei suoi confini dogmatici, quelli fatti propri dalla Consulta.

Ci pare infatti che la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza abbia valenza solo al fine di correttamente configurare il fatto illecito: non c’è fatto illecito se non c’è l’evento giuridico (il danno-evento, appunto) consistente nella lesione dell’interesse protetto dalla norma violata, mentre i danni-conseguenza sono i danni che attengono a sfere diverse da quelle direttamente tutelate della norma che tutela l’interesse primario e sono quindi collegati alla condotta da un nesso di causalità di “secondo grado” (ossia, come dice Corte Cost. 184 del 1986 i danni-conseguenza sono legati all’intero fatto illecito – che è composto di condotta + nesso di causa + danno-evento o evento giuridico – da un ulteriore nesso di causalità: “non esiste comportamento senza evento: il primo è momento dinamico ed il secondo momento stativo del fatto costitutivo dell’illecito. Da quest’ultimo vanno nettamente distinte le conseguenze, in senso proprio, del fatto, dell’intero fatto illecito, causalmente connesse al medesimo da un secondo messo di causalità”.)

Ci pare che la soluzione della vexata quaestio stia nell’ammettere che il danno alla capacità lavorativa generica è una mera fictio iuris che, da quando il danno biologico è assurto al rango che gli è proprio, non ha più alcuna ragione di esistere ne in autonomia ne quale componente del biologico: il che risolverebbe, d’un colpo, anche il problema della rivalsa INAIL.

 

5.3.3. Questione INAIL e danno morale: lo spartiacque del 1994.

 

Applicando quegli stessi principi enunciati nel 1991 per il danno biologico, la Corte Costituzionale nel 1994 con la sentenza Morini c. INAIL [39] risolse la questione INAIL con riferimento al danno morale.

La Corte dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale (in riferimento all’art. 32 Cost) dell’art. 10, e 7º comma, del T.U. n. 1124 del 1965, nella parte in cui prevedeva che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa avessero diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l’infortunio è derivato, al risarcimento del danno morale solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superasse l’ammontare delle indennità corrisposte dall’INAIL. Dichiarò inoltre infondata la questione di legittimità costituzionale (in riferimento agli art. 2, 32 e 38 Cost.) dell’art. 11, e 2º comma, nella parte in cui consentiva all’INAIL di avvalersi, nell’esercizio del diritto di regresso contro il civilmente responsabile, anche delle somme dovute al danneggiato a titolo di risarcimento del danno morale.

Il punto è che il risarcimento del danno morale, a differenza del biologico, non è assistito dalla garanzia di cui all’art. 32 Cost [40] non avendo diretta attinenza con la sfera del diritto alla salute.

Cionondimeno, il disposto degli artt. 10 ed 11 dev’essere letto ed interpretato nel senso che “il danno risarcibile, anche se comprende diverse componenti, costituisce un complesso unitario e sostanzialmente indifferenziato”  sicchè riacquista “preminente rilievo la considerazione del fatto che l’azione di surroga o di regresso, formalmente diretta contro il terzo, incide sostanzialmente sul patrimonio dell’assicurato, il quale viene privato, in tutto o in parte del suo credito di risarcimento. Si intende, quindi come i limiti dell’azione debbano essere ricercati nel rapporto assicurativo e nella sua funzione indennitaria, escludendosi dunque all’ambito della surroga quelle componenti del danno spettanti al danneggiato nei confronti del terzo che siano estranee alla copertura assicurativa, ché, altrimenti, l’assicurato verrebbe espropriato del suo diritto all’integrale risarcimento del danno, con conseguente palese violazione del principio generale espresso dall’art. 2043”

La Corte ha dunque insegnato che esiste una lettura costituzionalmente compatibile delle norme del T.U. – il che impedisce di dichiararle illegittime – che impone di applicarle tenendo in considerazione il perimetro coperto dall’assicurazione obbligatoria: tutto il danno che non è oggetto di copertura INAIL, è posto a carico del responsabile in via ordinaria. La conseguenza è che anche il danno morale diveniva così intoccabile in quanto voce risarcitoria non coperta dalla garanzia assicurativa.

5.4. La questione INAIL ed il danno differenziale nel vigore della nuova disciplina

 

Giungiamo ora ad esaminare l’attuale panorama nel quale, per effetto dell’art. 13 del DPR 38 del 2000, la selezione di ciò che entra nel danno differenziale e ciò che resta assorbito dall’indennità INAIL assume una maggior complessità in quanto non si tratterà più solo di tenere al di fuori del sistema indennitario le voci di danno diverse da quello strettamente patrimoniale (o, al limite, quella componente del danno biologico che presenta una contiguità con la sfera patrimoniale, il danno alla capacità lavorativa generica), ma si dovrà distinguere sia tra danno biologico temporaneo e permanente perché solo il secondo è coperto dall’INAIL, sia tra danno biologico permanente al di sopra o al di sotto del 6 % perché sotto tale soglia opera una totale franchigia a favore dell’INAIL; si dovrà poi procedere con attenzione alla determinazione e quantificazione delle altre voci di danno non patrimoniale (il morale, l’esistenziale, e – forse – financo quelle voci ormai desuete perché assorbite nel biologico, quali il danno alla vita di relazione, alla vita sessuale, il danno edonistico ecc.) della quali l’INAIL non si interessa.

Della nuova disciplina – che, ripetiamo, introduce un indennizzo che sostituisce ed annulla la vecchia rendita per inabilità permanente già prevista dall’art. 66 del T.U. e che pertanto dal 25 luglio 2000 è abolita – mentre ci sembra apprezzabile la ratio di aumentare l’effettività della tutela dei lavoratori assicurati (non foss’altro perché pone loro di fronte per il risarcimento del danno biologico un soggetto pubblico certamente solvibile, laddove non sempre la controparte datoriale si rivela poi in grado di adempiere e magari neppure è dotata di copertura assicurativa integrativa privata), è forse valutabile con minor favore l’estensione al danno biologico di origine lavorativa dell’esonero del datore dalla responsabilità civile perché l’indennizzo fornito dal social security system è tendenzialmente meno generoso del risarcimento che spetterebbe applicando le tabelle del valore/punto in uso presso le corti.

D’altra parte l’indennizzo del danno biologico, a differenza del risarcimento civilistico, è un indennizzo generalistico di tipo previdenziale e sociale, che prescinde dalla condizione economica e sociale del singolo soggetto e tende ad assicurare a tutti i lavoratori indifferentemente i mezzi adeguati alle esigenze di vita ai sensi dell’art. 38 Cost.

Se la vecchia questione INAIL poteva ormai dirsi sopita per effetto delle sentenze del 1991 e 1994 della Consulta [41], ci pare che oggi possa sorgere una nuova questione INAIL, forse financo più complicata e presumibilmente destinata a risolversi con detrimento del danneggiato.

La riforma [42] epocale (benché sperimentale [43] …) introdotta con l’art. 13 comporta uno stravolgimento del sistema indennitario, non essendo difficile accorgersi che il nuovo sistema è diametralmente opposto a quello precedente [44] così come era risultato a seguito degli interventi del giudice delle leggi. Infatti:

-         prima l’indennizzo INAIL era centrato sul solo aspetto patrimoniale e non toccava la sfera del danno biologico e morale

-         mentre prima vi era una franchigia al 10 %, oggi l’Istituto non paga nulla per lesioni fino al 5 %

-         oggi per lesioni che comportino una invalidità permanente tra il 6% ed il 15% l’Istituto corrisponde, in forma di capitale, solo più un indennizzo a titolo di danno biologico [45]:è legittimo ritenere che il datore possa esser chiamato a risarcire al danneggiato i pregiudizi non coperti dall’assicurazione quali – laddove sussistenti e provati – l’eventuale danno patrimoniale, quello morale e quello esistenziale

-         per lesioni superiori al 16 % l’INAIL indennizza anche il danno patrimoniale mediante una aumento dell’indennizzo del biologico. Sappiamo infatti che le menomazioni di grado pari o superiore al 16 % (seconda fascia) “danno diritto all’erogazione di un’ulteriore quota di rendita per l’indennizzo delle conseguenze delle stesse, commisurata al grado di menomazione, alla retribuzione dell’assicurato e al coefficiente di cui alla apposita “tabella dei coefficienti”, che costituiscono indici di determinazione della percentuale di retribuzione da prendere in riferimento per l’indennizzo delle  conseguenze patrimoniali, in relazione alla categoria di attività lavorativa di appartenenza dell’assicurato e alla ricollocabilità dello stesso”, il che significa che il danno patrimoniale viene indennizzato solo se quando lesione psico-fisica sia almeno del 16%, sotto forma di quota “ulteriore di rendita rispetto all’indennizzo corrisposto per le conseguenze di tipo biologico. Abbiamo già rilevato come l’indennizzo avvenga mediante la costituzione di una rendita vitalizia unica ma composta da due quote ideali: l’una a titolo di indennizzo del danno biologico e l’altra a titolo di indennizzo del danno patrimoniale. Ebbene, in questa seconda fascia delle lesioni oltre il 16%, l’INAIL indennizza il danno biologico e quello patrimoniale, ma lascia scoperto quello morale ed esistenziale.

La soluzione del problema del nuovo danno differenziale (facendo i conti con la clausola dell’esonero che resta pur sempre in vigore) sta nel principio per cui non si può in alcun modo sacrificare il diritto dell’assicurato all’integrale risarcimento del danno.

A noi sembra che i termini della questione siano ancora – mutatis mutandis – quelli a suo tempo espressi dalla Cassazione [46] con l’orientamento fatto proprio dalla Corte Costituzionale con la sentenza 37 del 1994 sulla questione INAIL per il danno morale: i limiti del danno differenziale e dell’esonero devono essere ricercati nel rapporto assicurativo e nella sua funzione indennitaria, escludendosi dall’ambito dell’esonero quelle componenti del danno spettanti al danneggiato nei confronti del terzo che siano estranee alla copertura assicurativa, a pena di privare ingiustamente il danneggiato del diritto all’integrale risarcimento del danno.

Insomma, non v’è motivo per non avvalersi ancor oggi delle guidelines individuate dalla giurisprudenza nell’individuazione di ciò che è coperto dall’assicurazione obbligatoria e ciò che resta a carico del datore, perché i principi sono sempre validi pur mutando il contenuto: “nell’ipotesi in cui non tutto il pregiudizio sofferto dal lavoratore infortunato in occasione di un incidente stradale risulti coperto dall’ente gestore dell’assicurazione sociale (INAIL), per essere questo tenuto a risarcire, ed avere, in effetti, risarcito, soltanto il danno da invalidità temporanea e permanente, le voci di pregiudizio estranee a tale copertura, quali il danno biologico, quello morale e le spese sostenute devono essere ristorate direttamente alla vittima dell’incidente dal responsabile civile e, nei limiti del massimale di polizza, dal suo assicuratore, senza possibilità di compensazione tra quanto per siffatte, ulteriori causali risulti ancora dovuto al danneggiato, e quanto rimborsato in sede surrogatoria all’ente suddetto che abbia provveduto per i citati, diversi titoli di danno”, insegna la Cassazione [47].

In che modo possa oggi venire in rilievo il danno differenziale emerge macroscopicamente dalla lettura della nuova norma:

- in prima fascia (quella dominata dalla franchigia) tutto il danno patito dal lavoratore sarà differenziale, sia esso patrimoniale, morale, biologico, esistenziale

- in seconda fascia sarà differenziale tutto il danno diverso da quello biologico, nell’accezione di invalidità permanente: quindi il patrimoniale, il morale, l’esistenziale ed il biologico temporaneo

in terza fascia sarà certamente differenziale il danno morale e quello esistenziale.

Le cose però sono decisamente più complicate da quello che traspare dalla semplice lettura del nuovo sistema, perché non sarà sufficiente a dirimere ogni questione il criterio di inclusione/esclusione basato sulle categorie definitorie “danno patrimoniale, morale, biologico, esistenziale”.

Ed allora un danno differenziale potrà scaturire dal riconoscimento di un diverso e maggiore “punteggio” di danno biologico in sede di RC rispetto a quanto accertato in sede di social security system in base al baréme medico-legale tipizzato dalla tabella INAIL, essendo noto che in campo civilistico ben possano applicarsi barémes differenti.

In secondo luogo si presenta la questione del valore del punto, perché normalmente il punto “civilistico” (applicando le tabelle d’equità in uso presso le varie corti o quella legale prevista dall’art. 5 della legge 5 marzo 2001 n. 57 che disciplina il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità, ossia fino al 9%, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti avvenuti dalla data 5 aprile 2001) sarà più elevato del valore del punto INAIL. Oggi che l’INAIL indennizza il danno biologico, non si potrà più cumulare de plano indennizzo ed integrale risarcimento del biologico in sede civile, ma si potrà domandare al responsabile di integrare la differenza tra quanto percepito dall’Istituto e quanto spetta per raggiungere il valore del danno civilistico.

Qualche ulteriore complicazione potrà porsi nei casi di terza fascia, nei quali l’INAIL eroga l’indennizzo sotto forma di rendita mensile anziché di capitale.

Come lucidamente illustrato da un esponente dell’avvocatura dell’INAIL torinese in un recente convegno[48], in un caso del genere il danneggiato sarebbe indotto a ritenere sconveniente l’erogazione di una somma mensile di contenuto modesto in luogo di un cospicuo capitale da parte del responsabile. In realtà, spiegava il relatore, bisogna rifuggire da quella che è una illusione contabile perché, capitalizzando con i consueti criteri statistico-attuariali quel rateo mensile di rendita, si otterrà una somma che corrisponde in effetti allo schema risarcitorio in capitale: “se l’INAIL valuta con il 16% il danno biologico subito da un uomo di 54 anni costituisce una rendita il cui valore capitale è di 15.500 euro ma che equivale ad un rateo mensile di circa 90 euro:  … si profila quella … illusione contabile in quanto il danneggiato non “vede” il capitale di 15.500 euro ma “vede” soltanto un rateo mensile che non gli consente, ad esempio, un qualche utilizzo del capitale sotto forma di investimento”. Il che sotto il profilo giuridico ed aritmetico è perfettamente condivisibile, anche tenuto conto che pure per il danno biologico civilistico esiste, ma è in totale desuetudine, la possibilità per il giudice di liquidare sotto forma di rendita vitalizia ex art. 2057 CC.

Forse però le perplessità del danneggiato non sarebbero del tutto campate in aria, se si considera che una rendita di quel genere – pur vitalizia – non si vede come possa aiutare il danneggiato a far fronte ad una diminuzione della propria integrità psicofisica in misura significativa come quella (anche solo) di un 16%, diminuzione che verosimilmente reca con se conseguenza di carattere meta-psicofisico o se vogliamo esistenziali che invece l’erogazione immediata di un capitale può più facilmente contribuire a superare. La natura non patrimoniale del danno biologico permanente comporta che non esiste modo alcuno di reintegrare davvero il soggetto leso rispetto al “bene” perduto (bene che non è “altro” da se, che non si può comprare, ma che fa parte dell’ “io”), men che meno se tale reintegrazione avviene sotto forma di dazione di danaro, in capitale o in rendita. Ci pare quindi che rimanga inevitabilmente frustrata ogni pretesa di configurare come soddisfacente il risarcimento pecuniario del danno fisico, e che quando essa avvenga mediante una rendita modesta (nell’ammontare delle singole rate, non nel complesso, atteso che in considerazione della durata della vita potrebbe essa alla fine risultare maggiore del capitale) il danneggiato legittimamente si ritenga insoddisfatto, non potendo in alcun modo supplire – per via della modestia dell’iniezione finanziaria periodica – alla peggiorata qualità della vita per esempio partendo per un viaggio, acquistando un bene agognato e desiderato o quant’altro a seconda delle aspirazioni personali (ognuno d’altra parte, trae piacere, ristoro e lenimento del dolore da ciò che meglio ritiene).

Altro problema di danno differenziale che potrebbe profilarsi nella terza fascia (danno biologico pari o superiore al 16%) riguarda la rivalsa INAIL in sede di surroga ex art. 1916 o in sede di regresso ex artt. 10 e 11 . L’Istituto infatti in tali casi avrà erogato una rendita composta da due quote, una per il danno biologico e una per il patrimoniale, danno quest’ultimo che non dev’essere provato dal lavoratore perché è presunto (non necessariamente infatti la lesione fisica di terza fascia comporta una diminuzione reddituale): è facile ritenere che il responsabile farà di tutto per dimostrare che il danno patrimoniale che l’INAIL ha pagato in rendita in realtà non sussisteva e comunque non era provato, sicché tenterà di resistere alla rivalsa dell’Istituto applicando i principi civilistici in tema di onere probatorio.

Ancora, sempre per la terza fascia, si dovrà verificare la tenuta dell’orientamento giurisprudenziale sino ad oggi pacifico [49] per cui a certe condizioni il dipendente che, nonostante l’invalidità permanente parziale, abbia conservato il posto di lavoro e la retribuzione, ha comunque diritto a chiedere il risarcimento del danno per il mancato guadagno potenziale: “in tema di risarcimento del danno da invalidità temporanea e da invalidità permanente, il principio in base al quale al lavoratore dipendente non compete l’indennizzo per invalidità temporanea se egli ha continuato a percepire la retribuzione, non è applicabile sic et simpliciter all’invalidità parziale permanente, poichè quest’ultima, secondo l’id quod plerumque accidit, rende presumibile una prestazione lavorativa più sofferta o disagiata, aumentando le probabilità di una cessazione anticipata del rapporto di lavoro e potendo causare un’impossibilità o difficoltà di esercitare a fine rapporto professioni alternative” ossia “rende presumibile un’influenza negativa sulla percezione di speciali compensi per una prestazione del lavoro più intensa del normale, o sull’ulteriore sviluppo di carriera, o su una possibilità di lavoro alternativo, o può richiedere l’impiego di uno sforzo maggiormente usurante per mantenere il precedente standard lavorativo” [50]. Si badi, per completezza, che tale presunzione opera non nel senso di esonerare il danneggiato dall’onere di provare le circostanze di fatto che valgano ad evidenziare un danno patrimoniale da lucro cessante, bensì solo nel senso di imporre al giudice di verificare tali circostanze laddove risultanti dal materiale probatorio acquisito. Se, come ci sembrerebbe necessario, il principio continuerà ad avere valore, si dovrà valutare se e come addossare al datore responsabile il risarcimento di tale danno patrimoniale differenziale rispetto a quello indennizzato dall’INAIL nella terza fascia, laddove l’Istituto indennizza un danno patrimoniale presunto ma non necessariamente sussistente.

E’ tuttavia troppo presto per verificare gli orientamenti giurisprudenziali sull’estensione del danno differenziale nel vigore della nuova disciplina.

Nell’unico precedente [51] la S.C. ha osservato che con l’art. 13 “il danno biologico è stato ricondotto alla copertura assicurativa obbligatoria e quindi rientra nella regola dell’esonero”, dal che sembrerebbe trarsi che, una volta intervenuto l’indennizzo INAIL, il datore di lavoro non sarebbe più tenuto a versare alcunché a titolo di danno biologico differenziale, rimanendo quindi obbligato per i soli danni morali, esistenziali ed eventuali altre voci di danno patrimoniale (ad esempio le spese mediche) non ricomprese nell’indennità INAIL.  Ci sembra francamente una impostazione semplicistica nient’affatto condivisibile, poiché irrispettosa dei principi elaborati dalla Consulta nel risolvere la vecchia questione INAIL e perché in contrasto con il diritto costituzionalmente garantito al risarcimento integrale del danno biologico.

 

5.5. I danni risarcibili

 

Per selezionare il danno differenziale da porre a carico del responsabile evitando da una parte indebite duplicazioni e dall’altra vuoti risarcitori, è necessario aver ben chiari il contenuto e la struttura delle varie voci di danno che possono conseguire ad un infortunio e ad una malattia professionale.

 

5.5.1. Il danno patrimoniale

L’art. 1223 CC è norma di portata generale che prevede che il risarcimento debba comprendere tanto la “perdita subita dal creditore” quanto “il mancato guadagno”, è naturalmente applicabile al danno patrimoniale derivante da lesioni personali riportate in ambito lavorativo. Per effetto del 1223 il danno patrimoniale si compone di un elemento statico e di uno dinamico.

Il primo è il danno emergente, espressione con cui si intende tanto il pregiudizio che colpisce beni e diritti suscettibili di valutazione economica che il danneggiato già possedeva al momento della lesione (lo stock delle utilità di cui una persona dispone in un dato momento) quanto il “costo” che il danneggiato deve sopportare per ripristinare lo status quo ante dopo l’evento lesivo: ed allora sarà danno emergente il danno materiale subito al vestiario o agli accessori che il soggetto indossava od aveva con se al momento dell’infortunio, o al veicolo che egli conduceva al momento dell’infortunio in itinere, le spese per le cure mediche e per l’acquisto dei medicinali, le spese per l’assistenza legale.

Il secondo elemento, quello dinamico, è il lucro cessante o mancato guadagno si intende il pregiudizio futuro che si concreta nella perdita di nuove utilità, nuovi beni, nuovi diritti (il “flow”, ossia il “flusso“): in buona sostanza rientra nel lucro cessante tanto la incapacità (temporanea o permanente, parziale o totale) del danneggiato di svolgere la propria abituale attività lavorativa, quanto la perdita delle chanches che egli prima dell’evento gli si prospettavano. La perdita di chance può anche essere riguardata come danno emergente da perdita di una possibilità attuale, anziché come perdita di un lucro futuro, ma la sostanza è che sotto tale categoria rientra la perdita della concorrenzialità lavorativa o professionale, la perdita delle capacità interrelazionali negli affari e nei rapporti esterni, la perdita della capacità lavorativa specifica, la perdita della prospettiva di carriera: non deve trattarsi, è chiaro, di mere speranze o aspettative, ma di concrete possibilità (da provare) che la vittima aveva al momento ella lesione e che poi si è vista vanificare.

Abbiamo già detto nei paragrafi precedenti che il danno patrimoniale viene indennizzato dall’INAIL nei soli casi inseriti nella c.d. terza fascia (ossia quelli in cui il danno biologico sia valutato in misura almeno del 16%) quale quota integrativa dell’indennizzo del danno biologico, e che tuttavia anche qui si possa individuare un danno patrimoniale differenziale: le cure mediche sotto il profilo del danno emergente, l’eventuale danno per mancato guadagno potenziale del lavoratore abbia conservato il posto di lavoro e la retribuzione (in caso di invalidità permanente parziale) sotto il profilo del lucro cessante.

Nell’ambito delle prime due fasce, quella dove opera la franchigia a favore dell’INAIL e quella tra il 6 ed il 15 % , vediamo che il danno patrimoniale subito dal lavoratore è oggi privo di copertura assicurativa e quindi fuori dall’ambito dell’esonero, sicché ci troviamo in un’area completamente collocabile nel danno differenziale di cui risponderà il datore responsabile.

 

5.5.2. Il danno biologico

 

Abbiamo già ampiamente trattato le tematiche del danno biologico; qui ci si impone di ricordare per sommi capi le modalità con cui esso viene comunemente risarcito.

Il danno biologico attiene al diritto inviolabile, primario ed assoluto alla salute, il cui valore non è perciò determinabile in base al reddito. In difetto di un parametro legale di determinazione, non si può che ricorrere ad una valutazione equitativa in base agli artt. 2056 e 1226 CC che tenga conto dei criteri indicati dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 184 del 1986 di cui abbiamo ampiamente parlato): uniformità di valutazione a parità di lesione e adeguamento all’incidenza della menomazione sulla vita specifica del danneggiato considerato anche nelle sue potenzialità interrelazionali. Insomma il danno biologico deve rispondere a due esigenze: da una parte, trattandosi di un danno che incide con oggettività su di un bene uguale per tutti quale l’integrità corporale, l’esigenza che di una uniformità pecuniaria di base, dall’altra parte l’esigenza di personalizzazione.

Circa la liquidazione del danno biologico da invalidità permanente si sono contrapposti per molti anni due criteri, quello genovese della liquidazione sulla base del parametro monetario costituito dal triplo della pensione sociale (espunto dall’art. 4, terzo comma, legge 26 febbraio 1977 n. 39) e quello milanese del calcolo a punto.

Come noto, è ormai ovunque (anche a Genova) prevalso l’uso del sistema del punto variabile – a favore del quale anche la Cassazione [52] si è più volte espressa – perché è criterio sganciato dalla sfera reddituale [53] e perché offre maggiori possibilità di adeguamento ad entrambe le esigenza prospettate in quanto funziona in base a correttivi matematici che consentono di tener conto sia della gravità della lesione sia dell’età del danneggiato.

La maggior parte dei sistema tabellari adottati dai vari Tribunali è impostato sulla tabella milanese che prevede una funzione crescente in ragione del punto di invalidità (il valore del singolo punto è più elevato per un danno del 30% che per un danno del 6%) ed una funzione decrescente in ragione dell’aumentare dell’età del danneggiato al momento del sinistro.

Sulla stessa impostazione si è attestato il legislatore con la tabella (di cui all’art. 5 della legge 5 marzo 2001 n. 57) del risarcimento del danno biologico derivante da sinistri stradali: “a titolo di danno biologico permanente è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al 9 per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente di cui all’allegato A annesso alla presente legge. L’importo così determinato si riduce con il crescere dell’età del soggetto in ragione dello 0,5 per cento per ogni anno di età a partire dall’undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari a lire un milione duecentomila”.

Identica la soluzione adottata in sede di social security system per l’indennizzo del danno biologico da parte dell’INAIL.

Sappiamo che oggi il danno biologico è posto a carico dell’assicuratore pubblico laddove l’invalidità permanente sia almeno del 6%, pertanto nell’ambito della prima fascia in franchigia, è chiaro che sarà il responsabile a risarcire il danneggiato. Meno chiaro è se in tali casi si debba applicare il baréme INAIL o altro: a noi pare che la questione debba esser rimessa in primo luogo alla scelta tecnica del CTU medico-legale ed in ultima battuta alla prudente valutazione del giudice, ma che non vi siano motivi di imporre l’utilizzo di quella tabella rispetto a sinistri che non godono della copertura assicurativa perché posti in franchigia.

Nell’ambito delle due fasce in cui il danno biologico viene indennizzato dall’INAIL rispettivamente in capitale o in rendita, si potrà evidenziare un danno differenziale in considerazione dei diversi parametri con cui tale danno trova ristoro nel tort e nel social security system: diversi infatti possono essere e normalmente sono i barémes medico-legali con cui la lesione viene valutata ed espressa in valore numerico percentuale rappresentante la diminuzione dell’integrità psicofisica, diverse sono le quantificazioni monetarie del valore del punto a seconda della tabella utilizzata (quella INAIL, quella legale per le micropermanenti da sinistro stradale, quelle d’equità in uso presso le varie corti).

Val la pena di segnalare qui i criteri in base ai quali funzione il baréme l’INAIL:

- l’elencazione delle menomazioni segue una numerazione progressiva funzione dell’ordine alfabetico seguito per apparati / sensi / tessuti di riferimento, nella specie: cardio-circolatorio, cicatrici e dermopatie, digerente, emopoietico, endocrino, patologia erniaria, neoplasie, nervoso, osteoarticolare e muscolare, otorinolaringoiatrico, respiratorio, sessuale, visivo.

- la descrizione della menomazione esplicitata nelle singole voci è riferibile al valore massimo indicato in tabella.  Nel caso di danni composti, vale a dire comprensivi di più menomazioni, la valutazione non potrà essere il risultato della somma delle singole menomazioni tabellate. In tali casi, infatti, si dovrà procedere a stima complessiva del danno con riferimento all’entità del pregiudizio effettivo dell’apparato e/o della funzione interessata dalle menomazioni. In caso di danni policroni professionali, sia riferibili a menomazioni ricadute in franchigia, sia a menomazioni indennizzate con capitale o in rendita, il danno biologico permanente finale sarà sempre il risultato di una valutazione complessiva. La stessa sarà guidata dai criteri comunemente utilizzati nella valutazione di menomazioni coesistenti e concorrenti. Per menomazioni concorrenti devono intendersi quelle che incidono su organi od apparati strettamente sinergici.

- in caso di abolizione di funzione di organo o di senso pari (reni, occhi, ecc.), qualora la stessa ricada su soggetti portatori di preesistenza extralavorativa o lavorativa, incidente sullo stesso organo o senso, il danno biologico permanente sarà uguale all’abolizione bilaterale tabellata.

- nella valutazione del danno la perdita funzionale non è equiparata a quella anatomica. Quest’ultima assume, di norma, connotazione di maggiore gravità.

- nell’ambito della stima del danno, il computo dei disturbi correlati, a carattere locale, non può portare a valutazioni superiori a quelle previste per la perdita anatomica del segmento interessato.

 

 

5.5.3. Il “vecchio” danno morale

 

Quanto al danno morale, stando al diritto positivo codificato esso è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 CC, norma che ne prevede il ristoro nei soli casi previsti dalla legge tra i quali il più rilevante è quello di cui all’art 185 CP[54] : in buona sostanza, stando alla lettera della norma ed alla sua interpretazione tradizionale (pacifica, sino a qualche giorno fa) il danno morale soggettivo consistente in quel dolore tendenzialmente transeunte che la vittima di un reato per ciò solo subisce, viene risarcito nel caso in cui il fatto illecito sia configurabile in astratto anche quale fattispecie di reato.

Nel capitolo dedicato all’art. 2087 abbiamo avuto occasione di rammentare come il 2059 venne trapiantata nel nostro codice importandola “monca” dal BGB, ed osservando come essa fosse a ben vedere estranea alla nostra tradizione giuridica benché conforme ad un (allora) recente orientamento giurisprudenziale teso a negare la risarcibilità tout court del danno non patrimoniale.

Sta di fatto che il 2059 ha costituito sinora un ostacolo – di cui nessuno sentiva il bisogno – alla possibilità di dare pieno ristoro alle lesioni non meramente patrimoniali, e che esso è stato sinora salvato da vari attacchi di incostituzionalità dall’attività suppletiva della Corte Costituzionale rispetto all’inerzia legislativa: come vedremo e come è noto, la Corte nel 1986 ha introdotto la piena risarcibilità del danno biologico sottraendolo al 2059 e ponendolo nell’ambito del 2043, chiarendo che se non si fosse potuto far così il 2059 sarebbe senz’altro dichiarato illegittimo per violazione dell’art 32 Cost.

L’opera di erosione del campo di copertura dell’art. 2059 è proseguita ad opera della giurisprudenza che via via ha chiarito come l’area del danno morale sia ristretta al solo momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico del soggetto offeso, mentre laddove vi sia una “sofferenza psichica o morale, che determini effettivamente, di per se stessa, alterazioni della psiche tali da incidere negativamente sull’attitudine del soggetto a partecipare normalmente alle attività, alle situazioni e ai rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita”, e tale lesione sia accertabile con criteri oggettivi medico-legali, ci si trova al di fuori del danno morale ma piuttosto nell’ambito del danno biologico di natura psichica [55].

Ulteriore erosione si è venuta poi ad operare per effetto della nuova teorica del danno esistenziale, di cui diremo poco oltre.

Tutto ciò, fino a ieri.

 

5.5.4.  Il “nuovo” danno non patrimoniale costituzionalizzato: la rilettura costituzionalmente orientata del 2059

 

Oggi l’impianto tradizionale ha subito un vero e proprio scossone ad opera di alcune recenti pronunce della Cassazione e di una recentissima della Corte Costituzionale.

Iniziamo dalle sentenze n. 8827/03 e 8828/03 [56] con cui la Cassazione ha davvero rivoluzionato la corrente interpretazione dell’ambito di applicazione dell’art. 2059, affermando che il danno non patrimoniale non può più essere identificato (secondo la tradizionale, restrittiva lettura dell’art. 2059 stesso, in relazione all’art. 185 CP) soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato. Esso deve essere, piuttosto, inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 CP: “deve escludersi, allorquando vengano in considerazione valori personali di rilievo costituzionale, che il risarcimento del danno non patrimoniale, che ne consegua, sia soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059 c.c., è l’ingiusta lesione di un interesse della persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica. In particolare, una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di ritenere inoperante il detto limite, se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti”.

Il discorso, tuttavia, presenta  qualche questione di compatibilità con quanto la Corte Costituzionale aveva insegnato con la sentenza 184 del 1986 sul danno biologico. Il problema pare piuttosto rilevante, se si considera che il revirement della Cassazione di cui stiamo parlando è stato oggetto di apprezzamento da parte della Consulta stessa con la recentissima pronuncia di cui daremo conto tra poco.

Cosa diceva la Consulta nel 1986 ? Che “mentre il danno biologico risulta nettamente distinto dal danno morale subiettivo, ben può applicarsi l’art. 2059 del cod. civ., ove dal primo (e cioè dalla lesione alla salute) derivi, come conseguenza ulteriore (rispetto all’evento della menomazione delle condizioni psico-fisiche del soggetto offeso) un danno morale subiettivo. Ciò sempreché il fatto realizzativo del danno biologico costituisca anche reato. Se nell’ordinamento non esistessero altre norme o non fossero rinvenibili altri principi relativi al danno biologico e, pertanto, quest’ultimo fosse risarcibile solo ai sensi dell’art. 2059 del cod. civ. e cioè, salve pochissime altre ipotesi, soltanto nel caso che il fatto costituisca (anche) reato e relativamente ai soli (conseguenti) danni morali subiettivi, si porrebbe certamente il problema della costituzionalità dell’art. 2059 del cod. civ. Come lo stesso problema si porrebbe ove, allargando l’ambito di comprensione della nozione di danno non patrimoniale, fino ad includere nella medesima ogni tipo di lesione d’un bene non patrimoniale, si ritenesse che il risarcimento del danno alla salute fosse riconducibile esclusivamente al combinato disposto degli artt. 2059 del cod. civ. e 185, secondo comma, del cod. pen. L’art. 32 della Costituzione, come si preciserà meglio oltre, verrebbe vanificato da una normativa ordinaria che riconducesse il danno alla salute ai soli artt. 2059 del c.c. e 185 del c.p.. Esiste, tuttavia, certamente, altra strada per adeguatamente soddisfare le esigenze poste dalla giurisprudenza in ordine al danno biologico  … il collegamento tra l’art. 32 della Costituzione e l’art. 2043 del c.c., come si dirà meglio oltre, imponendo una lettura “costituzionale” di quest’ultimo articolo, consente d’interpretarlo come comprendente il risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: è la lettura “costituzionale” dello stesso articolo, correlato con l’art. 32 della Costituzione, che soddisfa le esigenze sottostanti a tutte le tesi proposte in materia.  … L’art. 2043 del c.c. è una sorta di “norma in bianco”: mentre nello stesso articolo è espressamente e chiaramente indicata l’obbligazione risarcitoria, che consegue al fatto doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici la cui lesione è vietata: l’illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere dell’obbligazione risarcitoria, viene indicata unicamente attraverso l’“ingiustizia” del danno prodotto dall’illecito. … L’ingiustizia del danno biologico e la conseguente sua risarcibilità discendono direttamente dal collegamento tra gli artt. 32, primo comma, della Costituzione e 2043 del c.c.; più precisamente dall’integrazione di quest’ultima disposizione con la prima. … Il combinato disposto degli artt. 32 della Costituzione e 2043 del c.c. importa una rilettura costituzionale di tutto il sistema codicistico dell’illecito civile. … se l’art. 32 della Cost., non contempla espressamente il risarcimento, in ogni caso, del danno-biologico, è dallo stesso articolo che può desumersi, in considerazione dell’importanza dell’enunciazione costituzionale del diritto alla salute come diritto fondamentale del privato, la difesa giuridica che tuteli nella forma risarcitoria il bene della salute personale. Ciò non è, tuttavia, riferibile alla norma di cui all’art. 2059 del c.c. (stante l’interpretazione limitativa che, come si è ricordato, il diritto vivente dà di quest’ultimo articolo) ma va ricondotto alla norma risultante dal combinato disposto degli artt. 32 della Cost. e 2043 del c.c., giacché lo stesso diritto vivente ritiene quest’ultimo articolo, direttamente od indirettamente, applicabile al risarcimento del danno biologico.”

Oggi dunque la Cassazione sembra sconfessare tutta la teoria sulla lettura costituzionalizzata dell’art 2043 e, per giungere ad affermare che il pregiudizio conseguenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato ogni volta che si verifichi la lesione di un interesse costituzionalmente protetto, fa ciò che la Consulta non aveva ritenuto possibile fare nel 1986 [57], ossia offrire una nuova lettura del 2059 utilizzando quegli stessi argomenti che la Corte Cost. aveva utilizzato per rileggere il 2043.

Questa la premessa: “non ignora il Collegio che la tutela rìsarcitoria. del c.d. danno biologico viene somministrata in virtù del collegamento tra l’art, 2043 c.c. e l’art. 32 Cost., e non già in ragione della collocazione del danno biologico nell’ambito dell’art. 2059, quale danno non patrimoniale e che tale costruzione trova le sue radici (v. Corte cost., sent. n. 184/1986) nella esigenza di sottrarre il risarcimento del danno biologico (danno non patrimoniale) dal limite posto o dell’art. 2059 (norma nel cui ambito ben avrebbe potuto trovare collocazione, e nella quale, peraltro, una successiva sentenza della Corte costituzionale, la n. 372 del 1994, ha ricondotto il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria). Ma anche tale orientamento, non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimediato”.

Ed ecco che, dichiarata apertamente l’intenzione di revisionare il sistema della RC così come vivente dal 1986, la Corte propone una ri-lettura costituzionalmente orientata del 2059: ri-lettura che impone di ritenere inoperante il limite dato dal combinato disposto 2059 + 185 ogni qual volta la lesione abbia riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti, cui non si può negare la forma minima di tutela data dal risarcimento che, proprio perché minima, non è assoggettabile a specifici limiti salvo risolversi in un rifiuto di tutela [58].

L’altra faccia della medaglia dell’allargamento del 2059 alla tutela di tutti i danni non patrimoniali indipendentemente dalla sussistenza di reato, è che la Cassazione ridimensiona il 2043, sostenendo che nel suo ambito rientrino solo i danni patrimoniali: il che potrebbe segnare il realizzarsi di una seconda rivoluzione copernicana – dopo la prima del 1986 – nel settore della RC.

Segnaliamo come la Corte, dopo aver ridefinito i confini del 2059, abbia sentito l’esigenza di “chiarire che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 CC va tendenzialmente riguardata non già come occasione di incremento generalizzato delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione di risarcimento degli stessi pregiudizi ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune, secondo I’interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona, che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale quest’ultimo comprensivo dal danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori purché costituenti conseguenza della lesione dì un interesse costituzionalmente protetto. Deve anche dirsi che, tutte le volte che si verifichi la lesione di un tale tipo di interesse, il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato. E va ribadito che nella liquidazione equitativa dei pregiudizi ulteriori, il giudice non potrà non tenere conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo, in relazione alla menzionata funzione unitaria del risarcimento del danno alla persona”.

 

5.5.5. Danno non patrimoniale e colpa presunta: nuovissime dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale

 

Il sistema del danno non patrimoniale ha subito un ulteriore imponente scossone con riferimento alla questione della risarcibilità nei casi di colpa presunta. Gli interventi giurisprudenziali hanno ad oggetto ex professo l’art. 2054 ma, come già abbiamo osservato più sopra, la questione è interessante anche per chi si occupa di un criterio di imputazione ad inversione dell’onere probatorio in punto colpevolezza come quello di cui all’art. 2087.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza 12 maggio 2003 n. 7282 “Alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e 185 CP. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nei casi di cui all’art. 2054 CC, debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”.

Come noto, per consolidato orientamento giurisprudenziale fino ad oggi si doveva escludere la risarcibilità del danno non patrimoniale, nella corrente (e restrittiva) accezione di danno morale subiettivo, quando la responsabilità venisse affermata non in base ad un accertamento concreto dell’elemento psicologico (la colpa) ma in base ad una presunzione, quale, ad esempio quella stabilita dall’art. 2054 CC. Ciò perché l’attribuzione del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 CC può essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge tra i quali il più rilevante è quello di cui all’art. 185 CP ossia  quando il fatto illecito integri una fattispecie criminosa completa di tutti i suoi elemento costitutivi [59].

La Cassazione è partita dal considerare i migliori arresti circa la natura del danno non patrimoniale, nella sua accezione ampia di “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica”, ad iniziare dalla dogmatica del danno biologico che la Consulta nel 1986 aveva sottratto alle forche caudine del 2059 per farlo rientrare nell’orbita del danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 (quindi indipendentemente dall’astratta qualificazione del fatto come reato, quindi anche laddove la colpa non sia accertata ma solo presunta), per giungere all’ampliamento legislativo dei casi di espresso riconoscimento della riparazione del danno non patrimoniale anche al di fuori delle ipotesi di reato (impiego di modalità illecite nella raccolta di dai personali: art. 29, comma 9, della legge 31 dicembre 1996 n. 675; adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici e religiosi: art. 44, comma 7 del d.lgs 25 luglio 1998 n. 286; mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89). Noi aggiungiamo che si pone nello stesso senso l’orientamento dottrinario, fatto proprio dalla giurisprudenza anche della Cassazione (com le note sentenze 7713/2000 e 9009/2001), che riconosce la risarcibilità del danno esistenziale, categoria che – pur con una propria autonoma dignità – non si può ignorare esser nata dall’esigenza di trovare uno sbocco all’ingiustizia sostanziale cui porta l’applicazione di un brontosauro (Monateri docet) come il 2059, laddove si tratti di riparare a lesioni di diritti primari costituzionalmente garantiti ma non anche penalmente tutelati nel caso concreto.

Scopo dell’inversione dell’onere della prova è uniformare la posizione del danneggiato che non sia in grado di offrirla e quella del danneggiato che invece lo sia, rendendole paritarie mediante l’addossamento dell’onere della prova liberatoria al danneggiante e la correlativa presunzione di colpa in capo al medesimo. Vera la premessa, è incongruo che il danneggiato possa o meno ottenere il risarcimento del danno morale a seconda che abbia o meno dato la prova di una fatto (la colpa del danneggiante) che non gli compete e la cui mancanza va invece provata dall’altra parte.

Non c’è dunque differenza, conclude la S.C., tra il caso in cui il danneggiato provi la colpa (di talché il fatto integra reato ed il danno morale è certamente risarcibile) ed il caso in cui il danneggiante non riesca a  superare la presunzione di colpa: in entrambi i casi agli effetti civile (mai a quelli penali) la colpa sussiste ed il fatto senz’altro corrisponde alla fattispecie astretta di reato.

Siamo in fase di revisione delle bozze del libro quando l’11 luglio 2003 viene depositata dalla Corte Costituzionale l’attesissima sentenza (la n.233) nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2059 CC, promosso con ordinanza del 20 maggio 2002 dal Tribunale di Roma [60] in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.

Il Tribunale aveva sollevato due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2059, partendo dal presupposto interpretativo secondo cui l’ambito di applicazione dell’art. 2059 copre l’intera area del danno non patrimoniale, restando perciò preclusa la possibilità di risarcire il pregiudizio alla serenità morale, derivante dalla perdita di un congiunto per fatto illecito altrui, mediante il ricorso all’art. 2043, in combinato disposto con l’art. 2 Cost.

La prima aveva ad oggetto – con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. – la previsione di risarcibilità del danno non patrimoniale “solo nei casi determinati dalla legge”. Siffatta limitazione risarcitoria sarebbe – ad avviso del rimettente – lesiva del diritto fondamentale dell’individuo alla serenità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., nonché fonte di ingiustificate disparità di trattamento tra danneggiati. Avrebbe inoltre dato causa – per effetto di orientamenti giurisprudenziali nel tempo consolidatisi (è chiaro che il Tribunale di Roma in persona del giudice Rosssetti fa riferimento alla teorica del danno esistenziale) – ad ingiustificate duplicazioni risarcitorie, contrastanti con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza.

La seconda questione sollevata in subordine dal Tribunale riguardava il sospetto d’incostituzionalità rispetto all’art. 3 Cost del 2059 nella parte in cui escluderebbe la risarcibilità del danno morale nei casi di colpa presunta.

La Consulta è partita dal constatare che il “diritto vivente” è recentemente stato oggetto di vari ripensamenti, ed ha fatto propri i due recenti revirements della Cassazione di cui abbiamo appena parlato: quello circa il danno morale nei casi di colpa presunta, e quello con cui si è superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non patrimoniale ex art. 2059 CC si identificherebbe con il solo danno morale subiettivo, proponendo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 tesa a ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona (sia il danno morale soggettivo sia il danno biologico sia il danno esistenziale – così lo definisce anche la Consulta – derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona).

Per la Corte, stante la nuova lettura costituzionalizzata del 2059, non v’è alcun ostacolo all’accoglimento di una interpretazione opposta a quella da cui muoveva il Tribunale di Roma nel sollevare il dubbio di costituzionalità. Il punto è che il riferimento al “reato” contenuto nell’art. 185 CP non postula più, come si riteneva in passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge.

Per tali motivi la Corte ha esaminato prioritariamente la questione subordinata dichiarandola non fondata, e concludendo che il 2059 deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge. Ciò fatto, la Corte ritiene “in tal modo superato il dubbio di legittimità costituzionale originato da una contraria lettura della norma, mentre la concreta possibilità di una tutela risarcitoria dei danneggiati nel giudizio principale rende evidentemente priva di rilevanza e, pertanto, inammissibile l’ulteriore questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., prospettata dal medesimo rimettente in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. e diretta a censurare la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi stabiliti dalla legge”.

La pronuncia è di gran rilievo in quanto dà un autorevole supporto (laddove ve ne fosse bisogno) ai nuovi orientamenti della Cassazione, ma presenta, secondo noi almeno, due nervi scoperti sui quali probabilmente il dibattito è destinato ad accendersi

La prima è una questione di costruzione dogmatica (ma zeppa di riflessi pratici) dell’intero sistema risarcitorio, e riguarda il modo di conciliare il costrutto del danno biologico ex Corte Cost. 184/1986 con quello del nuovo danno non patrimoniale che, a quanto pare, alberga nel 2059 indipendentemente dalla sussistenza di reato: se allora il danno biologico era stato salvato dal 2059 sulla base di una lettura costituzionalmente orientata del 2043 (da mettersi in relazione col 32 Cost.), oggi il meccanismo è inverso, perché è il 2059 a dover esser letto in quella maniera. Certo è che a fronte della linearità dei concetti espressi in Repetto / AMT Genova (la sentenza 184), oggi ci troviamo a dover maneggiare un nuovo 2059 con il dubbio non del tutto fugato che la sua rilettura sia di fatto una rilettura abrogante.

Il secondo punto è che la decisione della Corte, pur lasciando intendere che il nuovo orientamento della S.C. dovrebbe essere quello corretto, si è limitata ad un non liquet sulla questione che più stava a cuore al giudice rimettente ed a tutti coloro che speravano (pur senza gran convinzione) in una parola definitiva sulla querelle circa il danno non patrimoniale, soprattutto con riferimento al “vero” oggetto della domanda rivolta dal Tribunale di Roma: se il danno esistenziale abbia o non abbia una propria ragion d’essere.

 

5.5.6. Il danno esistenziale

 

Le pronunce del giudice di legittimità e di quello delle leggi sono troppo fresche per decidere hic et nunc quanto interessante sia ancora la tematica che ci accingiamo ad esaminare e che fino a oggi (nel vero senso della parola, visto che scriviamo nello stesso giorno in cui la Consulta ha depositato l’ultimo arresto) era la novità che teneva acceso il dibattito.

Annunciando che il prossimo contributo di questa collana dedicata alle nuove frontiere della RC sarà dedicato interamente all’argomento, intendiamo parlare del danno esistenziale, voce di danno di creazione dottrinaria recentemente approdata vittoriosa alla giurisprudenza di legittimità anche in ambito giuslavoristico con la nota sentenza della sezione lavoro della Cassazione n. 9009 del 3 luglio 2001 [61].

Si tratta di una categoria che – prima che la rilettura costituzionalmente orientata del 2059 divenisse materia viva – trovava ratio vivendi nell’esigenza di sopperire ai limiti del sistema risarcitorio come allora strutturato e come strutturato fino ad ora.

Il compito del danno esistenziale, per ridurla in soldoni, era di completare l’opera di erosione del 2059 per farvi uscire quanto più possibile il danno non patrimoniale. Tuttavia non per questo è una categoria priva di una propria identità distintiva rispetto al danno morale subiettivo da reato (“il danno morale è essenzialmente un “sentire”, il danno esistenziale è piuttosto un “fare”cioè un non poter più fare, un dover agire altrimenti” [62]) ed ha quale contenuto precipuo la somma delle ripercussioni relazionali di segno negativo: di tutte tali ripercussioni ivi compreso il danno biologico secondo la scuola triestina di Cendon e Ziviz, (per cui nella macrocategoria si distinguono il danno esistenziale-biologico nel caso di lesione del diritto alla salute ed il danno esistenziale-non biologico nel caso di lesione di altri diritti della personalità diversi da quello alla salute [63]), delle sole ripercussioni non patrimoniali diverse da quelle biologiche, ma comprese quelle morali subiettive, per la scuola torinese di Monateri e Bona [64].

Il danno esistenziale secondo la seconda prospettiva alla quale aderiamo [65] rappresenta la categoria del “danno non patrimoniale civilistico” che ricomprende tutti i pregiudizi attinenti alla sfera psichica ed intima della persona e che trova confine nell’adiacente diversa categoria del danno non patrimoniale biologico (che si caratterizza per essere accertabile con criteri oggettivi medico-legali), da intendersi come liberato dai limiti dati dall’art. 2059. Tra danno morale subiettivo e danno esistenziale non v’è quindi necessariamente differenza di contenuto – per cui l’uno è sentire, l’altro non poter più fare – ma solo di disciplina positiva in dipendenza della connotazione della condotta dell’agente (che, per il morale, dev’essere criminosa). Che questa sia l’impostazione corretta ci pare possa trarsi dai revirements della Cassazione e della Corte Costituzionale di cui abbiamo detto sopra: intanto la Corte di Cassazione, al di la della questione definitoria esistenziale/morale che tutto sommato è poco rilevante, ha introdotto nell’ordinamento proprio la concezione del danno morale costituzionalmente orientato (non legato alle strettoie del combinato disposto 2059 CC + 185 CP) che coincide perfettamente con quella del danno morale civilistico di cui parla la scuola torinese.

Inoltre la Consulta, nella sentenza n. 223, ha parlato apertamente di danno esistenziale definendo così quello “derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona” e che, in quanto tale, rientra insieme al biologico ed al morale subiettivo nell’ambito di quel danno non patrimoniale costituzionalizzato di cui parla la Cassazione.

 

5.5.7. Danno esistenziale e art. 2087: Trib. Pisa 3 ottobre 2001

 

V’è poi da dire che il danno esistenziale, quale autonoma categoria di danno alla dignità ed alla personalità ed alla qualità della vita, nel settore giuslavoristico trova sostegno anche nell’art. 41 della Costituzione che impedisce all’attività di impresa di ledere la “dignità umana” e, come si è visto, nella clausola generale di cui all’art. 2087 CC che impone al datore di lavoro di tutelare, oltre all’integrità fisica, la personalità morale del lavoratore. Se la norma di imputazione della responsabilità contrattuale dispone che non si può ledere la sfera della personalità morale del lavoratore a pena (come minimo) di risarcimento del danno, se di tale norma si facesse un uso più esteso nella aule di giustizia, poco importerebbe che il danno da lesione della personalità morale (ossia, per semplificare, il danno non patrimoniale derivante dall’aver subito infortunio o malattia professionale) sia definito morale, esistenziale, morale civilistico, morale costituzionalmente orientato, e ancor meno importerebbe il modo di costruzione dogmatica della figura.

In questo senso si segnala la motivazione della sentenza 3 ottobre 2001 del Tribunale di Pisa [66] avente ad oggetto il risarcimento del danno patito da una lavoratrice che, avendo subito molestie sessuali per ben cinque anni da un superiore gerarchico, si vide costretta a rassegnare le dimissioni per giusta causa. Nel caso di specie il datore di lavoro, pur al corrente della condotta criminosa posta in essere dal vicedirettore, si era limitato ad adottare uno “pseudoprovvedimento disciplinare assolutamente inadeguato” (così il giudice definisce la sanzione della sospensione che il datore inflisse ma non eseguì neppure), concorrendo omissivamente a cagionare nella dipendente uno stato di estremo disagio sfociato in malattia psichica.

Il Tribunale centra il punto secondo noi essenziale: la violazione dell’art. 2087 mediante lesione della personalità morale può realizzarsi senza che si verifichi alcun danno biologico e senza che il fatto costituisca reato, ma cionondimeno cagiona (necessariamente, altrimenti lesione non c’è) danno alla sfera morale che il giudice pisano definisce esistenziale: “se si ritenesse la inconfigurabilità del danno esistenziale per la violazione dell’art. 2087 CC, quest’ultima norma risulterebbe inutiliter data, nelle ipotesi, frequentissime, di pregiudizio alla personalità morale che non cagioni un vero e proprio danno psichico con conseguenze permanenti nella vita di relazione”.

Il danno conseguente alla violazione dell’art. 2087 CC, per la parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore ha ad oggetto le lesioni della sfera morale che non sfocino in patologie (perché in tal caso c’è danno biologico psichico), il che può capitare per esempio quando il lavoratore destinatario della pressione o della vessazione, per sua fortuna, possegga risorse proprie che gli consentano di superare indenne il comportamento vietato, così sicuramente avvertendo una compromissione della sua “personalità” ma senza alcuna conseguenza permanente nelle sue capacità psichiche. Osserva il giudice toscano che quello del danno per lesione della personalità morale è concetto più ampio del danno biologico e consiste nell’oggettivo travalicamento del potere di eterodirezione o gerarchico che si concretizzi in un pregiudizio “morale” ( quindi non necessariamente psichico). Non v’è neppure il rischio di duplicare il danno morale, “perché la logica che sorregge il danno morale è quella di restaurare il prezzo del dolore nei casi in cui la lesione sia di tale gravità da comportare l’applicazione astratta (anche) della sanzione penale, in mancanza di una norma, legale o pattizia, che descriva come obbligatorio un certo comportamento; ipotesi, questa, diversa dalla nostra nella quale si discute della violazione dell’obbligo contrattuale (art. 2087 c.c.) di rispettare la personalità morale del lavoratore, così trattandosi di una forma risarcitoria ex se, che concorre sia con il risarcimento patrimoniale, sia con il risarcimento alla vita di relazione, sia con il risarcimento da fatto delittuoso ( c.d. danno morale)”.

Tuttavia, come già abbiamo osservato criticamente nel paragrafo sull’art 2087, dobbiamo fare i conti con una giurisprudenza che parte sempre dal dato extracontrattuale e che comunque merita di essere presa in esame.

 

5.5.8. Il danno esistenziale approda in Cassazione: spunti critici sulla sentenza n.9009/01 della Cassazione sezione lavoro

 

Passiamo quindi a verificare come la sezione lavoro della Cassazione, con la sentenza n. 9009/2001, si sia occupata del danno esistenziale prendendo in esame un caso portato piuttosto frequentemente alla cognizione dei giudici del lavoro, quello del lavoro domenicale. In tal ipotesi, oltre alla retribuzione ed alle maggiorazioni previste dalla legge e dai CCNL a compensazione della maggiore penosità delle ore di lavoro straordinario, notturno, festivo e domenicale, per consolidata giurisprudenza (a partire da Cass. S.U. 1607/1989) il lavoro domenicale non meramente eccezionale e senza riposo compensativo comporta il diritto al risarcimento del danno subito – a titolo del tutto autonomo rispetto a quello del compenso per la maggiore penosità del lavoro – consistente nell’usura psico-fisica che il lavoratore subisce se privato del riposo necessario e nelle limitazioni alla vita di relazione connaturate alla limitazione delle ore di libertà.

La sentenza in esame è innovativa nella parte in cui riconosce che tale danno, nella sua chiara natura di danno non patrimoniale, possa configurarsi come biologico (se comporta una lesione della sfera psicofisica accertata con criteri medico-legali obiettivi) e/o come esistenziale laddove la compromissione delle attività realizzatrici della persona umana non si evidenzi in una patologia clinicamente determinata.

Fin qui il ragionamento della Corte, accogliendo la nozione del danno esistenziale – anzi, dandone per scontata la tutela da parte dell’ordinamento – appare del tutto condivisibile.

Ciò che, a nostro parere, induce a qualche perplessità è la ricostruzione di tale danno nel solo ambito della responsabilità extracontrattuale (salvo l’accenno, quale obiter dictum, all’art 2087) con le conseguenze sul piano probatorio cui siffatta ricostruzione conduce.

La Corte intendeva revisionare e superare l’orientamento (è la stessa 9099 ad indicare ex plurimis, Cass 12334/1997, 867/1998, 704/1999, 2455/2000) secondo cui dall’inadempimento del datore discende automaticamente, cioè senza bisogno della relativa prova in concreto, la ragione di danno relativa all’usura psico-fisica che oggi possiamo, con la Cassazione, definire “esistenziale”.

La Corte, ritenendo preferibile altro orientamento -  espresso dalle sentenze 8835/1991, 7905/1998, 143/2000 – che richiede che il danno biologico (o quello esistenziale) “venga provato nella sua esistenza e nel nesso di causalità con l’inadempimento, esistenza che costituisce presupposto indispensabile per una valutazione equitativa, giacché non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro”.

Come giunge la sentenza 9009 a questo risultato ?

La Corte parte dal ricordare come la Consulta [67] abbia chiarito che se è vero che con la sentenza 184 del 1986 si era stabilito che il danno biologico può ritenersi in qualche modo presunto [68], identificandosi con lo stesso fatto illecito lesivo della salute, ciò significa che “la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell’integrità fisio-psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 CC”.

Dunque la Cassazione riecheggia la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza che si legge nella sentenza 184 del 1986 [69] ed afferma che mentre il danno biologico sarebbe un danno-evento la cui sussistenza accede automaticamente in re ipsa ad ogni lesione del diritto alla salute, il danno esistenziale sarebbe invece un danno-conseguenza da provarsi nell’an e nel quantum.

Ciò ricordato, la Corte considera come nel caso del risarcimento per il lavoro domenicale vengano in considerazione i diritti inderogabili e indisponibili attribuiti dall’art. 36 Cost. ai lavoratori subordinati, diritti che però sono di natura economica (in quanto compresi del Titolo III della Carta fondamentale), benché posti a tutela anche di interessi non strettamente patrimoniali (esistenza libera e dignitosa, necessità che sia garantito il recupero delle energie ed in definitiva tutelato anche il bene della salute e del benessere in senso ampio del lavoratore dipendente). Secondo la Corte il fatto che la norma costituzionale – da porre in relazione all’art. 2043 sulla falsariga della costruzione del danno biologico che si legge in Corte Cost. 184/86 – consista in una norma posta a tutela di diritti economici e non direttamente di diritti della personalità, impone che il danno al diritto della personalità non possa risultare in re ipsa ma debba essere allegato e provato “sia pure con ampio ricorso alle presunzioni, allorché non si versi nell’ambito del pregiudizio della salute in senso stretto, in relazione al quale l’alterazione fisica o psichica è oggettivamente accertabile”. In altre parole: una volta accertato il danno-evento (ossia il danno che è connaturato alla lesione del diritto fondamentale), si può procedere a valutare il danno-conseguenza nell’ambito del quale si colloca quello esistenziale.

Al di la della opinabile scelta di avvalersi della distinzione danno-evento / danno-conseguenza, ciò che sembra poco condivisibile della sentenza 9009 è l’aver posto il danno esistenziale nella seconda anziché nella prima categoria: se proprio si vogliono utilizzare tali categorie, sarebbe forse più corretto dire che il danno esistenziale è un danno-evento al pari del biologico perché analoghe sono le fondamenta giuridiche che sostengono le due figure.

Il che, peraltro, sembra confermato dall’impostazione che la stessa Cassazione (la prima sezione) ha espresso con l’altro arresto in tema di danno esistenziale, la sentenza 7 giugno 2000 n. 7713: in quel caso la S.C. ha affermato che la lesione di diritti fondamentali della persona, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, deve andare incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza). L’assunto è quello stesso fatto proprio dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 184 del 1986 sul danno-evento da lesione del diritto alla salute ossia danno biologico, e che per la Cassazione è riferibile (per la latitudine dei suoi enunciati) ad ogni analoga lesione di diritti fondamentali della persona diversi dalla salute che è corretto qualificare come danno esistenziale.

La struttura del danno esistenziale che la Corte ci presenta con la sentenza 7713 è quella della lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2043 CC in correlazione agli articoli della Costituzione che tutelano i predetti valori, art. 2043 che prevede il risarcimento del danno quale “sanzione esecutiva del precetto primario”, oltretutto “la minima delle sanzioni che l’ordinamento appresta per la tutela di un interesse”.

Visti i principi espressi dalla Consulta con la 184 e dalla Cassazione con la 7713, il percorso che la S.C. ha seguito con la 9009 (apprezzabile invece nella parte in cui riconosce piena dignità al danno esistenziale) non pare dei più corretti. Ci sembra infatti che la costruzione del danno esistenziale debba seguire queste direttrici:

- la lesione alla salute (art 2043 cc + 32 Cost) costituisce l’essenza antigiuridica del fatto illecito che incide sull’integrità fisica dell’individuo, ed il danno biologico è danno-evento perché si colloca all’interno del fatto illecito (i cui elementi sono la condotta, la colpevolezza e l’evento) come requisito ontologicamente necessario (senza il danno-evento, non v’è fatto illecito)

- con lo stesso meccanismo, la lesione alla sfera esistenziale (art 2043 cc + art 2 Cost, o art 36 Cost. come nel nostro caso) costituisce l’essenza antigiuridica del fatto illecito quando esso incida su aspetti intimi dell’integrità dell’individuo diversi dalla sfera fisica, sicché il danno esistenziale è danno-evento perché costituisce elemento fondante del fatto illecito.

Vere queste premesse, la Corte avrebbe potuto seguire questo diverso iter:

a)      il danno esistenziale è il danno-evento come il biologico,

b)      se si segue l’impostazione della sentenza 9009 per cui il danno-evento non richiede particolari prove essendo in re ipsa nella lesione (ossia, se viene leso il diritto costituzionalmente garantito, è perché vi è stato un fatto illecito completo di tutti i suoi elementi, dalla condotta alla antigiuridicità rappresentata dalla lesione del bene protetto). Altro problema, poi, rispetto ad un danno il cui an è in re ipsa, sarà dare la prova sotto il profilo del quantum e quindi dell’incidenza sulla sfera personale (ma è così anche per il biologico)

c)      ne consegue che il danno esistenziale è in re ipsa ogni qual volta vi sia un fatto illecito che incide sui valori e diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti da norme diverse dall’art 32 (perché altrimenti saremmo nel campo del danno-evento biologico) e da individuarsi, nel caso di specie, nell’art 36 e nell’art 2.

Ma poi, a dirla tutta, il ragionamento della Corte non ci convince perché parte dal presupposto che poiché il diritto fondamentale leso dalla condotta del datore è di natura economica e quindi di natura economica è il bene primario direttamente tutelato dalla norma costituzionale (l’art 36), si rivela necessario un passaggio eziologico ulteriore a collegamento tra lesione del diritto economico e lesione del diritto della personalità, tale da far rientrare quest’ultimo nell’ambito dei danni-conseguenza. Tutto ciò perché, secondo la Corte, l’art. 36 Cost. è ricompreso nel titolo II della parte I della Costituzione, che ad oggetto i rapporti etico-sociali (non i “rapporti economici” come si legge nella 9009): osserviamo che anche l’art. 32 Cost. è ricompreso nel medesimo titolo II (nella parte dedicata ai “rapporti civili”), eppure la Consulta con la sentenza 184/86 non ha avuto – giustamente – alcuna difficoltà a porlo in relazione all’art 2043 CC costruendo il danno biologico come archetipo di danno-evento.

Non sembra poi corretto affermare che l’ultimo comma dell’art 36 configuri il diritto al riposo settimanale come attinente alla sola sfera economica (tant’è vero che è irrinunciabile e, quindi, non monetizzabile con una previsione contrattuale, per esempio), perché la norma in realtà è posta soprattutto a tutela della sfera più personale dell’individuo, quella della sua libertà e della sua dignità.  D’altra parte, volendo proprio ritenere l’art. 36 non adatto a costruire in combinato disposto con l’art. 2043 CC un danno-evento da lesione del diritto fondamentale del lavoratore al riposo settimanale, si sarebbe potuto fruttuosamente utilizzare (anche in combinato disposto con il 36) l’art. 2 della carta costituzionale.

Quale che sia il giusto inquadramento dogmatico (problema che, quando il nuovo orientamento del danno morale costituzionalizzato avrà preso piede, è forse destinato a dissolversi), il danno esistenziale sta comunque aprendosi ampi varchi nel mondo del diritto del lavoro [70].

Nel senso da noi proposto, segnaliamo la recente pronuncia del Tribunale di Ravenna del 4 febbraio 2003, avente ad oggetto proprio il risarcimento del danno esistenziale in un caso di infortunio sul lavoro un muratore, mentre si trovava al lavoro su di un tetto andava a finire sopra un lucernaio completamente occultato alla vista perché ricoperto in precedenza con polistirolo e nylon. Nel passare sul lucernaio, l’operaio provocava la rottura del pannello di polistirolo che lo ricopriva e precipitava due piani sotto. Tra gli altri danni lamentati, il lavoratore esponeva e provava di esser stato costretto ad interrompere la propria carriera di calciatore semiprofessionista in seguito alle lesioni riportate.

Il Tribunale ha riconosciuto che l’impedimento alla prosecuzione dell’attività sportiva deve essere configurato come lesione di un diritto fondamentale rientrante nel catalogo dei diritti inviolabili sancito dall’art.2 della Costituzione sia perché attiene ad uno degli aspetti più qualificanti della persona, sia perché è destinato a svolgersi nel contesto di rapporti interpersonali nei quali si svolge la personalità (l’interruzione di una pratica sportiva ha ricadute negative immediate da una parte sul piano del benessere individuale, della felicità della persona e della realizzazione della propria dimensione di vita, e dall’altra parte sul versante della vita di relazione, del rapporto proficuo con gli altri, del consolidamento e dell’arricchimento della trama delle relazioni umane).

Osserva il giudice che “il pregiudizio esistenziale che si intende qui risarcire non si è risolto poi nella mera lesione di un diritto della persona (in se’ considerato, o danno evento, pur ritenuto sufficiente ai fini del risarcimento), ma ha pure prodotto concrete conseguenze pregiudizievoli, ossia modificazioni peggiorative dell’agire del ricorrente obiettivamente riscontrabili rispetto al suo modello di vita precedente all’infortunio; sicché sono soddisfatti tanto l’ingiustizia del danno (inteso come lesione di una posizione soggettiva qualificata) tanto l’esistenza del pregiudizio stesso (come peggioramento concreto della qualità della vita)”.

Premettendo che “non si e’ trattato di una lesione rinchiusa nella sfera dei patemi d’animo, nel foro interno ed emotivo dell’individuo, e non può essere quindi confusa con il pregiudizio morale in senso soggettivo, di cui non costituisce alcuna duplicazione risarcitoria”, il giudice ha ritenuto trattarsi di un pregiudizio riconducibile nella categoria del danno esistenziale.

Il condivisibile percorso logico-giuridico che ha condotto il Tribunale [71] a risarcire la voce di danno segue la via con cui indicata dalla Corte Costituzionale per il danno biologico: “il presupposto è che esistano diritti fondamentali della persona, collocati al vertice della gerarchia dei valori espressi dall’ordinamento, che meritano di essere tutelati in quanto tali (salute, dignità, identità, immagine, professionalità, libertà sessuale, vita di relazione, ecc.), pur se la loro lesione non si risolva in pregiudizi di tipo patrimoniale. Si registra però l’insufficienza a risarcirli sia attraverso l’art. 2059 CC in quanto relativo al “danno non patrimoniale” soggettivamente inteso ossia al danno morale, c.d. pretium doloris, tutelato nei soli casi previsti dalla legge (reato), sia attraverso l’art. 2043 CC inteso nella tradizionale accezione del danno patrimoniale (come “danno conseguenza” economicamente valutabile). Per ampliare queste anguste frontiere risarcitorie si è perciò parlato, a proposito delle lesioni ai diritti fondamentali, di “danni eventi” suscettibili di essere risarciti in se’ e per se’, per la serie di lesioni che essi stessi rappresentano a carico della persona intesa in senso ampio (della sua dignità e libertà), a prescindere dalle conseguenze patrimoniali che comportano. Tali danni sono risarcibili attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata ed estensiva dell’art. 2043 (che postula la sola ingiustizia del danno), letto in combinazione con le norme che nella Carta Costituzionale tutelano i valori fondamentali della persona (per la salute in combinato con l’art.32 della Cost.; e per gli altri diritti della persona in collegamento con gli artt. 2, 3, 41, tutte norme che per risalente orientamento giurisprudenziale sono pienamente e direttamente operanti anche nei rapporti tra privati”.

Annotiamo infine che la sentenza ravennate ha proceduto alla liquidazione del danno esistenziale, naturalmente in via equitativa, nella somma di 10.000 euro, a fronte di un danno biologico di circa 24.000 (tra permanente, ITP ed ITT) e di un morale puro di 12.000.


[1] Il lavoratore per essere tutelato dall’assicurazione INAIL deve possedere i seguenti requisiti: essere adibito (in modo permanente o avventizio) ad una delle lavorazioni che la legge definisce rischiose; prestare opera manuale; svolgere la propria opera alle dipendenze e sotto la direzione altrui; percepire una retribuzione, in qualunque forma, anche in natura. Sono obbligati ad assicurarsi anche gli artigiani ed i lavoratori autonomi dell’agricoltura, i soci delle cooperative e di ogni altro tipo di società, anche di fatto, comunque denominata. Dal 16 marzo 2000 vanno, comunque, assicurati gli appartenenti all’area dirigenziale, i lavoratori parasubordinati, gli sportivi professionisti dipendenti. Dall’1 marzo 2001 sono assicurate anche le casalinghe.

Così stabilisce l’art 1 del T.U.: “é obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro delle persone le quali, nelle condizioni previste dal presente titolo, siano addette a macchine mosse non direttamente dalla persona che ne usa, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi e impianti elettrici o termici, nonché delle persone comunque occupate in opifici, laboratori o in ambienti organizzati per lavori, opere o servizi, i quali comportino l’impiego di tali macchine, apparecchi o impianti.

L’obbligo dell’assicurazione ricorre altresì quando le macchine, gli apparecchi o gli impianti di cui al precedente comma siano adoperati anche in via transitoria o non servano direttamente ad operazioni attinenti all’esercizio dell’industria che forma oggetto di detti opifici o ambienti, ovvero siano adoperati dal personale comunque addetto alla vendita, per prova, presentazione pratica o esperimento.

L’assicurazione è inoltre obbligatoria anche quando non ricorrano le ipotesi di cui ai commi precedenti per le persone che, nelle condizioni previste dal presente titolo, siano addette ai lavori:

1) di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione di opere edili, comprese le stradali, le idrauliche e le opere pubbliche in genere; di rifinitura, pulitura, ornamento, riassetto delle opere stesse, di formazione di elementi prefabbricati per la realizzazione di opere edili, nonché ai lavori, sulle strade, di innaffiatura, spalatura della neve, potatura degli alberi e diserbo;

2) di messa in opera, manutenzione, riparazione, modificazione, rimozione degli impianti all’interno o all’esterno di edifici, di smontaggio, montaggio, manutenzione, riparazione, collaudo delle macchine, degli apparecchi, degli impianti di cui al primo comma;

3) di esecuzione, manutenzione o esercizio di opere o impianti per la bonifica o il miglioramento fondiario, per la sistemazione delle frane e dei bacini montani, per la regolazione o la derivazione di sorgenti, corsi o deflussi di acqua, compresi, nei lavori di manutenzione, il diserbo dei canali e il drenaggio in galleria;

4) di scavo a ciclo aperto o in sotterraneo; a lavori di qualsiasi genere eseguiti con uso di mine;

5) di costruzione, manutenzione, riparazione di ferrovie, tramvie, filovie, teleferiche e funivie o al loro esercizio;

6) di produzione o estrazione, di trasformazione, di approvvigionamento, di distribuzione del gas, dell’acqua, dell’energia elettrica, compresi quelli relativi alle aziende telegrafiche e radiotelegrafiche, telefoniche e radiotelefoniche e di televisione; di costruzione, riparazione, manutenzione e rimozione di linee e condotte; di collocamento, riparazione e rimozione di parafulmini;

7) di trasporto per via terrestre, quando si faccia uso di mezzi meccanici o animali;

8) per l’esercizio di magazzini di deposito di merci o materiali;

9) per l’esercizio di rimesse per la custodia di veicoli terrestri, nautici o aerei, nonché di posteggio anche all’aperto di mezzi meccanici;

10) di carico o scarico;

11) della navigazione marittima, lagunare, lacuale, fluviale ed aerea, eccettuato il personale di cui all’art. 34 del R.D.L. 20 agosto 1923, n. 2207, concernente norme per la navigazione aerea, convertito nella L. 31 gennaio 1926, n. 753;

12) della pesca esercitata con navi o con galleggianti, compresa la pesca comunque esercitata delle spugne, dei coralli, delle perle e del tonno; della vallicoltura, della miticoltura, della ostricoltura;

13) di produzione, trattamento, impiego o trasporto di sostanze o di prodotti esplosivi, esplodenti, infiammabili, tossici, corrosivi, caustici, radioattivi, nonché ai lavori relativi all’esercizio di aziende destinate a deposito e vendita di dette sostanze o prodotti; sono considerate materie infiammabili quelle sostanze che hanno un punto di infiammabilità inferiore a 125°C e, in ogni caso, i petroli greggi, gli olii minerali bianchi e gli olii minerali lubrificanti;

14) di taglio, riduzione di piante, di trasporto o getto di esse;

15) degli stabilimenti metallurgici e meccanici, comprese le fonderie;

16) delle concerie;

17) delle vetrerie e delle fabbriche di ceramiche;

18) delle miniere cave e torbiere e saline, compresi il trattamento e la lavorazione delle materie estratte, anche se effettuati in luogo di deposito;

19) di produzione del cemento, della calce, del gesso e dei laterizi;

20) di costruzione, demolizione, riparazione di navi o natanti, nonché ad operazioni di recupero di essi o del loro carico;

21) dei pubblici macelli o delle macellerie;

22) per l’estinzione di incendi, eccettuato il personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco;

23) per il servizio di salvataggio;

24) per il servizio di vigilanza privata, comprese le guardie giurate addette alla sorveglianza delle riserve di caccia e pesca;

25) per il servizio di nettezza urbana;

26) per l’allevamento, riproduzione e custodia degli animali, compresi i lavori nei giardini zoologici e negli acquari;

27) per l’allestimento, la prova o l’esecuzione di pubblici spettacoli, per l’allestimento o l’esercizio dei parchi di divertimento, escluse le persone addette ai servizi di sala dei locali cinematografici e teatrali (1);

28) per lo svolgimento di esperienze ed esercitazioni pratiche nei casi in cui al n. 5) dell’articolo 4 (2).

Sono considerati come addetti a macchine, apparecchi o impianti tutti coloro che compiono funzioni in dipendenza e per effetto delle quali sono esposti al pericolo di infortunio direttamente prodotto dalle macchine, apparecchi o impianti suddetti.

Sono pure considerate addette ai lavori di cui al primo comma del presente articolo le persone le quali, nelle condizioni previste dal presente titolo, sono comunque occupate dal datore di lavoro in lavori complementari o sussidiari, anche quando lavorino in locali diversi e separati da quelli in cui si svolge la lavorazione principale.

Sono altresì considerate addette ai lavori di cui ai numeri da 1) a 28) del presente articolo le persone le quali, nelle condizioni previste dall’art. 4, sono comunque occupate dal datore di lavoro anche in lavori complementari o sussidiari.

L’obbligo dell’assicurazione di cui al presente articolo non sussiste soltanto nel caso di attività lavorativa diretta unicamente a scopo domestico, salvo per i lavoratori appositamente assunti per la conduzione di automezzi ad uso familiare o privato.

Non rientrano nell’assicurazione del presente titolo le attività di cui al presente articolo quando siano svolte dall’imprenditore agricolo per conto e nell’interesse di aziende agricole o forestali, anche se i lavori siano eseguiti con l’impiego di macchine mosse da agente inanimato, ovvero non direttamente dalla persona che ne usa, le quali ricadono in quelle tutelate dal titolo secondo del presente decreto” (2).

(1) La Corte costituzionale con sentenza 21 marzo 1989, n. 137, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente numero, in relazione al successivo art. 4, n. 1, nella parte in cui non comprende tra le persone soggette all’assicurazione obbligatoria i ballerini e i tersicorei addetti all’allestimento, alla prova o all’esecuzione di pubblici spettacoli.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 7 aprile 1981, n. 55, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, in relazione all’art. 4, n. 1, stesso testo unico, nella parte in cui non comprende nelle previsioni, di cui al terzo comma dell’art. 1 medesimo, le persone che siano comunque addette, in rapporto diretto con il pubblico, a servizio di cassa presso imprese, i cui dipendenti sono soggetti all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. La stessa Corte, con sentenza 19 dicembre 1985, n. 369, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ed 1 e 4 del presente decreto, nelle parti in cui non prevedono le assicurazioni obbligatorie a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di impresa italiana. Infine, con sentenza 26 luglio 1988, n. 880, l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 4, nelle parti in cui non prevedono l’assicurazione obbligatoria a favore degli artigiani italiani che lavorano all’estero.

[2] La Corte costituzionale, con sentenza 24 aprile 1986, n. 118, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui: a) non consente che, ai fini dell’esercizio dell’azione da parte dell’infortunato, l’accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui, non essendo stata promossa l’azione penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia provvedimento di archiviazione; b) non consente che, ai fini dell’esercizio dell’azione da parte dell’infortunato, l’accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.

[3] La Corte Costituzionale, con sentenza 9 marzo 1967, n. 22, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo limitatamente ai commi terzo e quinto, nella parte in cui essi riproducono le norme dell’art. 4, terzo e quinto comma, del r.d. 1765/1935, anche esse dichiarate incostituzionali con la stessa sentenza. Il terzo e quinto comma del citato art. 4 del r.d. 17 agosto 1935, n. 1765, sono stati dichiarati incostituzionali, il primo nella parte in cui limita la responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro derivante da reato, all’ipotesi in cui questo sia stato commesso dagli incaricati della direzione o sorveglianza del lavoro e non anche dagli altri dipendenti del cui fatto debba rispondere secondo il Codice Civile, e il secondo in quanto consente che il giudice possa accertare che il fatto che ha provocato l’infortunio costituisca reato soltanto nella ipotesi di estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza menzionare l’ipotesi di prescrizione del reato. Successivamente, la Corte, con sentenza 19 giugno 1981, n. 102, ha dichiarato: a) l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 10 e 11, d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui preclude in sede civile l’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro qualora il processo penale promosso contro di lui o di un suo dipendente per il fatto dal quale l’infortunio è derivato si sia concluso con sentenza di assoluzione, malgrado che l’Istituto non sia stato posto in grado di partecipare al detto procedimento penale; b) l’illegittimità costituzionale del comma quinto dell’art. 10, d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione; c) l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dagli artt. 11 e 10, d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui dispone che, nel giudizio civile di danno a carico del datore di lavoro per un infortunio di cui sia civilmente responsabile per fatto di un proprio dipendente, l’accertamento dei fatti materiali che furono oggetto di un giudizio penale sia vincolante anche nei confronti del datore di lavoro rimasto ad esso estraneo perché non posto in condizione di intervenire; d) l’illegittimità costituzionale, ex art. 27 legge n. 87 del 1953, del comma quinto dell’art. 10 del d.p.r. n. 1124 del 1965, nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nel caso in cui la sentenza di condanna penale non faccia stato nel giudizio civile instaurato dall’INAIL

[4] Corte Cost. 30 aprile 1986 n. 118, in Arch. Civ. 1986, 1060

[5] Cass 21 ottobre 1997 n. 10361

[6] Cass. 2 dicembre 1983 n.7224

[7] La Corte, con sentenza 18 febbraio 1988, n. 179, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale presente nella parte in cui non prevede che “l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro” dell’artt. 3 del T.U. che così recita: “l’assicurazione è altresì obbligatoria per le malattie professionali indicate nella tabella allegato n. 4, le quali siano contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali lavorazioni rientrino fra quelle previste nell’art. 1. La tabella predetta può essere modificata o integrata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, di concerto con il Ministro per la sanità, sentite le organizzazioni sindacali nazionali di categoria maggiormente rappresentative. Per le malattie professionali, in quanto nel presente titolo non siano stabilite disposizioni speciali, si applicano quelle concernenti gli infortuni.”

[8] Cass. 11 aprile 1987 n. 3641

[9] Cass. 6 settembre 1988 n.5048

[10] cfr la giurisprudenza degli anni ‘60 e ‘70 citata da Marando in “Le azioni di RC per infortuni sul lavoro e malattie professionali”, Milano, 1977, 64)

[11] A norma dell’art. 9 del T.U. “I datori di lavoro soggetti alle disposizioni del presente titolo sono le persone e gli enti privati o pubblici, compresi lo Stato e gli Enti locali, che nell’esercizio delle attività previste dall’art. 1 occupano persone tra quelle indicate nell’art. 4”.

Così dispone l’art.4:

“Sono compresi nell’assicurazione:

1) coloro che in modo permanente o avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione;

2) coloro che, trovandosi nelle condizioni di cui al precedente n. 1), anche senza partecipare materialmente al lavoro, sovraintendono al lavoro di altri;

3) gli artigiani, che prestano abitualmente opera manuale nelle rispettive imprese;

4) gli apprendisti, quali sono considerati dalla legge;

5) gli insegnanti e gli alunni delle scuole o istituti di istruzione di qualsiasi ordine e grado, anche privati, che attendano ad esperienze tecnico-scientifiche od esercitazioni pratiche, o che svolgano esercitazioni di lavoro; gli istruttori e gli allievi dei corsi di qualificazione o riqualificazione professionale o di addestramento professionale anche aziendali, o dei cantieri scuola, comunque istituiti o gestiti, nonché i preparatori, gli inservienti e gli addetti alle esperienze ed esercitazioni tecnico-pratiche o di lavoro;

6) il coniuge, i figli, anche naturali o adottivi, gli altri parenti, gli affini, gli affiliati e gli affidati del datore di lavoro che prestino con o senza retribuzione alle di lui dipendenze opera manuale, ed anche non manuale alle condizioni di cui al precedente n. 2) (1);

7) i soci delle cooperative e di ogni altro tipo di società, anche di fatto, comunque denominata, costituita od esercitata, i quali prestino opera manuale, oppure non manuale alle condizioni di cui al precedente n. 2);

8) i ricoverati in case di cura, in ospizi, in ospedali, in istituti di assistenza e beneficenza quando, per il servizio interno degli istituti o per attività occupazionale, siano addetti ad uno dei lavori indicati nell’art. 1, nonché i loro istruttori o sovraintendenti nelle attività stesse;

9) i detenuti in istituti o in stabilimenti di prevenzione o di pena, quando, per il servizio interno degli istituti o stabilimenti, o per attività occupazionale, siano addetti ad uno dei lavori indicati nell’art. 1, nonché i loro istruttori o sovraintendenti nelle attività stesse.

Per i lavoratori a domicilio si applicano le disposizioni della L. 13 marzo 1958, n. 264, e del regolamento approvato con D.P.R. 16 dicembre 1959, n. 1289.

Tra le persone assicurate sono compresi i commessi viaggiatori, i piazzisti e gli agenti delle imposte di consumo che, pur vincolati da rapporto impiegatizio, per l’esercizio delle proprie mansioni si avvalgano non in via occasionale di veicoli a motore da essi personalmente condotti.

Sono anche compresi i sacerdoti, i religiosi e le religiose che prestino opera retribuita manuale, o anche non manuale alle condizioni di cui al precedente n. 2), alle dipendenze di terzi diversi dagli enti ecclesiastici e dalle associazioni e case religiose di cui all’art. 29, lettere a) e b), del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia, anche se le modalità delle prestazioni di lavoro siano pattuite direttamente tra il datore di lavoro e l’ente cui appartengono le religiose o i religiosi o i sacerdoti occupati e se la remunerazione delle prestazioni stesse sia versata dal datore di lavoro all’ente predetto.

Per quanto riguarda la navigazione e la pesca, sono compresi nell’assicurazione i componenti dell’equipaggio, comunque retribuiti, delle navi o galleggianti anche se eserciti a scopo di diporto” (2).

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 25 novembre 1987, n. 476, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente numero, nella parte in cui non ricomprende tra le persone assicurate i familiari partecipanti all’impresa familiare indicati nell’art. 230-bis c.c. che prestano opera manuale o a questa assimilata ai sensi del precedente art. 2.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 19 dicembre 1985, n. 369, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 ed 1 e 4 del presente decreto, nelle parti in cui non prevedono le assicurazioni obbligatorie a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di impresa italiana. La stessa Corte, con sentenza 26 luglio 1988, n. 880, ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 1 e 4, nelle parti in cui non prevedono l’assicurazione obbligatoria a favore degli artigiani italiani che lavorano all’estero. Con successiva sentenza 15 luglio 1992, n. 332, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui non prevede tra le persone assicurate gli associati in partecipazione i quali prestino opera manuale, oppure non manuale alle condizioni di cui al n. 2.

[12] così l’art. 67 del T.U-: Gli assicurati hanno diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto assicuratore anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi stabiliti nel presente titolo

[13] Cass. 10 gennaio 1984 n.189

[14] cass. 13 luglio 1971 n.2287, Cass 21 giugno 1969 n.2236

[15] L’art. 68 del T.U. stabilisce che ”a decorrere dal quarto giorno successivo a quello in cui è avvenuto l’infortunio o si è manifestata la malattia professionale e fino a quando dura l’inabilità assoluta, che impedisca totalmente e di fatto all’infortunato di attendere al lavoro, è corrisposta all’infortunato stesso un’indennità giornaliera nella misura del sessanta per cento della retribuzione giornaliera calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120.  Ove la durata dell’inabilità, di cui al comma precedente, si prolunghi oltre i novanta giorni, anche non continuativi, la misura dell’indennità giornaliera è elevata, a decorrere dal novantunesimo giorno, al settantacinque per cento della retribuzione giornaliera calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120”. Dunque il periodo di franchigia corrisponde a 3 giorni di completa astensione dal lavoro oltre al giorno in cui si è verificato l’infortunio. Durante tale periodo la retribuzione è a carico del datore di lavoro che è obbligato a pagare per intero la giornata nella quale è avvenuto l’infortunio ed almeno il 60% della retribuzione (salvo migliori condizioni previste da contratti collettivi o individuali di lavoro) per i successivi tre giorni. A partire dal 4° sino al 90° giorno di astensione completa dal lavoro per inabilità temporanea assoluta, l’INAIL eroga il 60% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla retribuzione lorda percepita dal lavoratore nei 15 giorni precedenti l’infortunio. Dal 91° giorno in poi la percentuale di cui sopra sale al 75%. Per specifiche categorie (artigiani, lavoratori agricoli autonomi e subordinati a tempo determinato, medici radiologi, ecc) il calcolo viene effettuato sulla base delle retribuzioni convenzionali stabilite con Decreto Ministeriale.

L’art. 73. Integra tale disposizione così recita:”il datore di lavoro è obbligato a corrispondere al lavoratore infortunato l’intera retribuzione per la giornata nella quale è avvenuto l’infortunio e il sessanta per cento della retribuzione stessa, salvo migliori condizioni previste da norme legislative e regolamentari, nonché da contratti collettivi o individuali di lavoro, per i giorni successivi fino a quando sussiste la carenza dell’assicurazione.”

[16] Non dissimile da quella che recita “per danno biologico si intende la lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale. Il danno biologico è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato” data dalla legge 5 marzo 2001 N. 57 che ha istituito la tabella per il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti avvenuti dalla data 5 aprile 2001, con esclusivo riferimento alle invalidità valutate da 1% a 9%. La legge, è noto, non disciplina i danni alla persona da illecito civile che rimangono regolati dalle originarie tabelle giurisprudenziali in uso presso i vari tribunali, né prevede criteri tabellari medico-legali di riferimento che dovranno essere stabiliti dal Ministro della Salute.

[17] così il testo dell’art 74: “Agli effetti del presente titolo deve ritenersi inabilità permanente assoluta la conseguenza di un infortunio o di una malattia professionale, la quale tolga completamente e per tutta la vita l’attitudine al lavoro. Deve ritenersi inabilità permanente parziale la conseguenza di un infortunio o di una malattia professionale la quale diminuisca in parte, ma essenzialmente e per tutta la vita, l’attitudine al lavoro.

Quando sia accertato che dall’infortunio o dalla malattia professionale sia derivata un’inabilità permanente tale da ridurre l’attitudine al lavoro in misura superiore al dieci per cento per i casi di infortunio e al venti per cento per i casi di malattia professionale, è corrisposta, con effetto dal giorno successivo a quello della cessazione dell’inabilità temporanea assoluta, una rendita d’inabilità rapportata al grado dell’inabilità stessa sulla base delle seguenti aliquote della retribuzione calcolata secondo le disposizioni degli articoli da 116 a 120:

1) per inabilità di grado dall’undici per cento al sessanta per cento, aliquota crescente col grado della inabilità, come dalla tabella allegato n. 6, dal cinquanta per cento al sessanta per cento;

2) per inabilità di grado dal sessantuno per cento al settantanove per cento, aliquota pari al grado di inabilità;

3) per inabilità dall’ottanta per cento al cento per cento, aliquota pari al cento per cento. Gli importi delle rendite mensili sono arrotondati al migliaio più prossimo: per eccesso quelle uguali o superiori alle lire cinquecento, per difetto quelle inferiori a tale cifra.

A decorrere dal 1° luglio 1965, per il calcolo delle rendite per inabilità permanente si applica la tabella delle aliquote di retribuzione allegato n. 7.

Dalla data del 1° luglio 1965 sono riliquidate tutte le rendite in corso di godimento in base alle nuove aliquote di retribuzione di cui al comma precedente.”

[18]è una raccolta ragionata di menomazioni disfunzionali, solitamente raggruppate per insiemi organici (apparato scheletrico, organi interni, apparato respiratorio, eccetera), per ognuna delle quali è suggerito un valore indicativo di riduzione della complessiva validità dell’individuo” insegna Rossetti, ne Il danno da lesione alla salute, Milano, 2001, 420, nel quale sono presi in rassegna i baréme più comunemente utilizzati, con una breve ma illuminante comparazione dei risultati cui si perviene applicando diverse tabelle.

[19] Tant’è vero che quasi trent’anni fa l’esigenza era ufficialmente sentita e segnalata a livello europeo da un documento (non vincolante) quale la Risoluzione n. 7-75 del 14 marzo 1975 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (Résolution (75) 7 relative à la réparation des dommages en cas de lésions corporelles et de décès) che, trattando dell’eventuale realizzazione di una tabella unica europea, il Consiglio rilevava come potesse ostare la diversità tra i vari sistemi valutativi presenti nei singoli Stati membri e contemporaneamente l’influenza considerevole in questa materia delle condizioni economiche e sociali presenti in ciascuno Stato. La Risoluzione tuttavia non escludeva che in futuro si potesse giungere ad una valutazione uniforme sulla base dello studio dei precedenti giudiziari dei vari Stati membri.

[20] proprio per questo motivo, alcuni autori hanno sostenuto debba trovare applicazione anche al di fuori degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, Cfr. Cimaglia e Rossi, Danno biologico – Le tabelle di legge, Milano, 2000. In giurisprudenza si sono segnalate in passato decisioni che hanno tenuto conto della tabella allegata al T.U. del 1965, pur impropriamente in quanto trattavasi di parametri imperniati sulla lesione dell’attitudine al lavoro. Così Cass. 16 maggio 1990 n.4237: “Al fine della liquidazione di danni derivanti da invalidità permanente, ancorchè non derivanti da infortunio sul lavoro, il giudice di merito può legittimamente fare ricorso alla tabella ufficiale delle invalidità da infortuni sul lavoro, per la quantificazione del danno alla persona, atteso che detta tabella risulta idoneo strumento per l’identificazione del danno alla persona, anche in consonanza a logica e misurata prospezione di una media aspettativa dell’occupazione nazionale”.

[21] Pubblicato sul supplemento ordinario n. 119 della G.U., 25 luglio 2000, n. 172.

[22] Sulle tappe della “questione INAIL” cfr.: Poletti, Danno alla salute e infortuni sul lavoro: dall’evoluzione giurisprudenziale alla riforma legislativa, in La valutazione del danno alla salute, a cura di Busnelli e Bargagna, 4° ed., Padova, 2001, 215 ss.;  Pirani, Danno biologico e rivalse INAIL prima della riforma di cui al D.lgs n. 38/2000, in Danno e responsabilità, 2000, 1264; Oliva e Bona, Il danno alla persona nella riforma INAIL: l’art. 13 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38, in monateri, Bona, Oliva, Peccenini, Tullini, Il danno alla persona, Torino, 2000, Tomo II, 913 ss.;  Poletti, Ancora sulla reciproca estraneità tra il danno alla salute e le rendite previdenziali, in Resp. civ. prev., 1998, 374; Bile, Danno biologico e surrogazione dell’assicuratore sociale, in Danno e responsabilità, 1998, 733; Monateri-Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 181 ss.; Vincenti, Azione di regresso ex articolo 11 testo unico del 1965 ed attuali limiti al recupero da parte dell’INAIL, in Riv. Giur. della Circolaz. e dei Trasp., n. 3/1997, 557 e ss; Salombrino, Indennizzo previdenziale, danno alla cenestesi lavorativa e diritto di surroga dell’assicuratore: un dibattito ancora aperto, in Riv. Giur. della Circolaz. e dei Trasp., 1997, n. 3, 612 e ss; Rodolfi, INAIL e INPS titolari dell’azione surrogatoria, ma l’indennizzo è a discrezione dei giudici, in Guida al Diritto-Sole 24-Ore, dossier mensile Aprile 1996, 29 e ss;  Franco, Diritto alla salute e responsabilità del datore di lavoro, Milano, 1995; Marando, Le azioni di rivalsa dell’Inail, in Resp. civ. e prev., 1995, 219; Alibrandi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 1994; Ferrari Gennaro e Ferrari Giulia, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 1993; Navarretta, Capacità lavorativa generica, danno alla salute e nuovi rapporti tra responsabilità civile ed assicurazione sociale, in Resp. civ. e prev., 1992, 63; Assante, Diritto di surroga ex articolo 1916 cod. civ. e danno biologico alla luce della sentenza n. 356 del 1991 della Corte costituzionale, in Riv. Giur. della Circolaz. e dei Trasp., 1991, 102; Giannini, Riflessioni sulla sentenza della corte costituzionale n. 356 del 18 luglio 1991 in tema di esonero del datore di lavoro da responsabilità civile per gli infortuni e di surrogazione dell’assicuratore ex art. 1916 del codice civile, in Resp. civ. prev., 1991, 695; Poletti, Cronaca di un incontro annunciato: il danno alla salute e l’assicurazione contro gli infortuni, in Foro it., 1991, I, 1664; Poletti, Il danno biologico del lavoratore fra tutela previdenziale e responsabilità civile, in Foro it., 1991, 1, 3292.

[23] La giurisprudenza era oscillante tra le due posizioni: Pret. Milano, 28 settembre 1988 “Ove sussiste la responsabilità civile del datore di lavoro in caso di infortunio, al lavoratore che abbia subito una menomazione della integrità psicofisica, va riconosciuto, oltre al risarcimento del danno da invalidità permanente e il danno morale, anche il danno biologico derivante dalla lesione in sé della salute, quale presupposto di eventuali ulteriori pregiudizi patrimoniali e morali”; Pret. Firenze, 5 ottobre 1989 “Qualora sia stata accertata in sede penale la responsabilità del datore di lavoro in relazione all’infortunio occorso al dipendente, la determinazione del risarcimento spettante all’Inail ai sensi degli art. 10 e 11, t. u. 1124/1965, incontra come limite il complessivo ammontare del risarcimento che sarebbe effettivamente dovuto dal responsabile secondo le norme e gli ordinari criteri di liquidazione del danno vigenti nel campo delle responsabilità da fatto illecito; si dovrà pertanto tener conto, oltre che del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale e di quello biologico”; Pret. Brescia, 31 maggio 1988 “Il lavoratore riconosciuto affetto da ipoacusia di natura professionale, costituendosi parte civile nel procedimento penale contro il datore di lavoro, può ottenere, oltre al risarcimento del danno patrimoniale e di quello morale, anche il risarcimento del danno biologico, o danno alla persona”; Pret. Roma, 14 giugno 1988 “Le misure che l’imprenditore deve adottare ai sensi dell’art. 2087 c. c. devono essere individuate anche con riferimento a posizioni di singoli lavoratori dotate di tratti di peculiarità; pertanto, nel caso in cui il lavoratore versi in una condizione patologica che ne determini una particolarissima vulnerabilità alla fatica, il datore di lavoro, in osservanza dei doveri di prudenza e diligenza, nonché delle norme tecniche e di esperienze di cui all’art. 2087 c. c., è tenuto ad attivarsi allo scopo di rintracciare un’adeguata collocazione al dipendente; la violazione di tale dovere determina per l’imprenditore un obbligo di risarcimento di danno, con riferimento non solo alla capacitàproduttiva di reddito del lavoratore, ma anche al cosiddetto danno biologico, inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul <valore uomo in tutta la sua dimensione>”; Trib. Milano, 20 luglio 1990 “Il danno biologico subito dal dipendente a seguito di infortunio o di malattia professionale, rientra nella previsione dell’art. 10, d. p. r. 30 giugno 1965, n. 1124 e, pertanto, è indennizzato attraverso la liquidazione della rendita posta a carico dell’Inail, valendo anche in ordine ad esso il principio dell’esonero del datore di lavoro dal relativo risarcimento, salvo la sussistenza di specifiche ipotesi di responsabilità penale”; Pret. Livorno, 27 febbraio 1991 “Nel caso di malattia da lavoro, il risarcimento per danno biologico dovuto al lavoratore dal datore (ove ritenuto civilmente responsabile della malattia medesima), risulta dalla differenza – ragguagliata percentualmente al grado di invalidità accertato – tra la capitalizzazione della retribuzione mensile e la capitalizzazione della rendita corrisposta dall’Inail”.

[24] Gabrielli c. INAIL Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 87, in Foro it., I, 1664, con nota di Poletti.

[25] [25], Salambat c. A.E.M. e Strobietto c. Ditta Emex Corte Cost., 18 luglio 1991, n. 356, in Foro it., 1991, I, 2347, con nota di De Marzo.

[26] Bracco c. Fall. soc. Axel Corte Cost., 27 dicembre 1991, n. 485, Giur. it. 1992, I,1, 794; Giust. Civ. 1992, I, 583; Dir. lav. 1992, II, 104.

[27] Corte Cost n. 22 del 1967 e n. 74 del 1981

[28] così si esprime con incisività la 184: “La solenne dichiarazione della Costituzione si ridurrebbe ad una lustra, nelle ipotesi escluse dalla tutela risarcitoria; il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro dell’effettività della predetta dichiarazione costituzionale. Con l’aggravante che, mentre il combinato disposto degli artt. 32 della Costituzione e 2043 del c.c. porrebbe il divieto primario, generale, di ledere la salute, il fatto lesivo della medesima, per il quale non è previsto dalla legge ordinaria il risarcimento del danno, o, assurdamente, impedirebbe al precetto primario d’applicarsi (il risarcimento del danno rientra, infatti, nelle sanzioni che la dottrina definisce esecutive) o, dovrebbe ritenersi giuridicamente del tutto irrilevante. Dalla correlazione tra gli artt. 32 della Costituzione e 2043 del c.c., è posta, dunque, una norma che, per volontà della costituzione, non può limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico

[29] ricordi il lettore che stiamo sempre parlando del sistema ante riforma del 2000

[30] cfr ex multis sul punto dell’intangibilità del danno biologico e morale Cass. 4 settembre 2002, n. 12879

[31] Il che chiaramente poco si concilia con la nozione unitaria del danno biologico nell’ambito del quale è pressochè impossibile attribuire con una qualche oggettività un valore monetario alla capacità lavorativa generica. Ulteriore complicazione, peraltro oggi ancor più sentita in conseguenza della riforma del 2000, era data dalla diversità tra le tabelle Inail e quelle utilizzate in sede di responsabilità civile.

[32] Cass. 12 dicembre 1996, n. 11073.

[33] così espressamente Cass. 15 settembre 1995 n. 9761; cfr nello stesso senso Cass. 15 aprile 1996 n. 3516, Cass. 8 luglio 1992 n. 8325, Cass. 16 giugno 2001 n. 8182, Cass. 29 gennaio 2002, n. 1114

[34] Cass 25 settembre 1997 n.

[35] Cass. 27 agosto 1999 n. 89. Vedi anche Pret. Busto Arsizio 10 febbraio 1999 “L’eventuale indennizzo corrisposto dall’Inail al lavoratore infortunato, essendo volto a ristorare il solo pregiudizio alla capacità lavorativa generica, è totalmente estraneo al risarcimento del danno biologico e del danno morale che, pertanto, vanno posti integralmente a carico del datore di lavoro”; cfr poi Trib. Trento 22 giugno 2001 n.123

[36] Cass. 27 agosto 1999 n. 8998

[37] Trib. Torino 11 dicembre 1993 n.8222, in Arch.Giur.Circ, 1994,749

[38] ricorda Cass. 28 maggio 1996 n.4909 che il danno biologico inteso quale menomazione dell’integrità psico-fisica della persona in sè e per sé considerata e quindi correlato al danno specifico della sfera non patrimoniale di estrinsecazione dei valori umani perduti – costantemente presente in ogni fatto illecito che rechi danno alla persona – ha una portata più ampia e assorbente rispetto al danno alla vita di relazione comprendendo anche altri tipi di danno non bene definiti (ad es. il danno estetico e quello alla sfera sessuale), e si distingue da quello patrimoniale in quanto prescinde dalla capacità di produrre reddito (cfr. Cass. nn. 5271/95, 3239/95, 3119/95, 11169/94, 10539/94, 9170/94, 10153/93, 2008/93, 12911/92).

Anche secondo Cass. 14 marzo 1993 n. 3260 in Arch.Giur.Circ., 1993, 685 (alla quale sono conformi Cass. 14 marzo 1995 n. 2932, e cass. 19 aprile 1996 n.3727): “In caso di illecito lesivo dell’integrità psico-fisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttive di reddito, nè sia in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sè considerato, con la conseguenza che l’anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale, in quanto già valutata come danno biologico”.

Cfr Trib. Piacenza 22 maggio 1993 n. 227, in Arch.Giur.Circ, 1993, 705: “Essendo il concetto di capacità lavorativa generica un espediente elaborato per garantire la risarcibilità del danno alla persona anche nei casi in cui non cessava alcun lucro ovvero non si aveva una incidenza delle lesioni sulla capacità lavorativa del soggetto, una volta affermatosi in giurisprudenza il concetto di danno biologico, e cioè la menomazione psicofisica della persona, in sè e per sè considerata, risarcibile sempre e comunque a tutti i soggetti indipendentemente dal fatto che la lesione abbia ripercussioni sulla capacità di produrre reddito, è intuitivo che il concetto di capacità lavorativa generica non ha più alcuna funzione e quindi è diventato del tutto superfluo e superato”.

Cfr anche App. Catania 30 ottobre 1997, in Arch.Giur.Circ. 1998, 267: “Il danno rapportato alla capacità di produrre reddito, anche se incidente sulla sola capacità lavorativa generica del danneggiato deve essere nettamente distinto dal danno biologico e liquidato separatamente come autonoma voce di danno. Solo per le microinvalidità, infatti, è dato concretamente presumere l’adattamento della persona alle condizioni di lieve disagio e, per questa via, il mantenimento senza sforzo usurante, delle opportunità di reddito”.

V. poi Trib. Firenze 3 novembre 1993 n.2389 in Arch.Giur.Circ. 1994,248: “In caso di scontro fra due veicoli, cagionante una lesione dell’integrità psicofisica del danneggiato, il danno derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica subito da un soggetto che non svolge attività produttiva di reddito, né sia in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile esclusivamente sotto il profilo del danno alla salute, inteso come somma delle sofferenze psicofisiche conseguenti alle lesioni subite e liquidabile in via equitativa”.

[39] Corte Cost., 17 febbraio 1994, n. 37, Foro it., 1995, I, 84 (m), con nota di Castronono, Giur. it., 1995, I, 10, con nota di Nasi, Orient. giur. lav., 1994, 969, Dir. ed economia assicuraz., 1995, 307, con nota di Pontonio.

[40] Punto di partenza in base al quale la stessa Consulta con la sentenza n. 184 del 1986, giunse ad affermare che la limitazione ai sensi dell’art. 2059 della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi determinati della legge è compatibile con il diritto inviolabile sancito dall’art. 32 Cost., purchè l’art. 2059 sia limitato al solo danno morale subiettivo, inteso quale “momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico” collegato alla sofferenza fisica o al dolore morale e, come tale, alla pari del danno patrimoniale in senso stretto, “danno-conseguenza, che può derivare da una serie numerosa di tipi di evento” e non soltanto dalla menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso.

[41] Ed infatti la giurisprudenza si è assestata sull’intangibilità del danno biologico. Cfr. ex multis Cass. 16 giugno 2001, n. 8182 “In caso di operatività dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al cosiddetto danno differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale, a norma dell’art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale, riguarda la sfera dell’ambito della copertura assicurativa, cioè il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, e invece – in armonia con i principi ricavabili dalle sentenze della Corte costituzionale n. 356 e 485 del 1991 e con il conseguente nuovo orientamento della giurisprudenza ordinaria sui limiti della surroga dell’assicuratore – non riguarda il danno alla salute o biologico e il danno morale di cui all’art. 2059 cod. civ., entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro”.; Pret. Ischia 16 dicembre 1998: “la risarcibilità del danno biologico è sempre ammissibile nella ipotesi di violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. Nel caso di infortunio sul lavoro non rileva la circostanza che il lavoratore infortunato sia stato indennizzato dall’Inail, non realizzandosi esonero di responsabilità, come previsto dall’art. 10 d.P.R. n. 1124 del 1965, in quanto la copertura assicurativa non ha ad oggetto il danno biologico. All’azione per il risarcimento del danno biologico non si può opporre l’esonero della responsabilità civile previsto dal d.P.R. n. 1124 del 1965 a favore del datore di lavoro”; Cass.15 settembre 1995 n. 9761 “A seguito delle sentenze della C. cost. n. 87, 356 e 485 del 1991, l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni subiti dal lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al cosiddetto danno differenziale non riguardano quelle componenti del danno che non formano oggetto della copertura assicurativa, quali il danno alla salute, o biologico, ed il danno morale di cui all’art. 2059 c.c., l’integrale risarcimento dei quali può sempre essere richiesto autonomamente, e non a titolo di danno differenziale, indipendentemente dall’entità dell’indennizzo assicurativo, a nulla rilevando che quest’ultimo, in conseguenza dei peculiari criteri di determinazione sulla base di coefficienti predeterminati, superi il risarcimento astrattamente ottenibile secondo i criteri civilistici di liquidazione del danno patrimoniale, e restando esclusa, per la diversità del titolo e dei soggetti debitori, qualunque compensazione fra le somme dovute per l’uno e per l’altro dei titoli suddetti.; Trib. Parma 23 dicembre 1995 “Spetta al datore di lavoro risarcire autonomamente e per intero il danno biologico al lavoratore infortunato (indipendentemente dalla prestazione previdenziale da parte dell’Inail) in tutti i casi in cui si provi che l’infortunio o la malattia professionale sia addebitabile ad una colpa (anche se concorrente) dell’imprenditore o di qualsiasi suo sottoposto, di chi egli debba rispondere civilmente, determini o meno tale colpa una responsabilità penale, posto che per interpretazione della Corte costituzionale (sent. n. 87 e 356 del 1991), l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile di cui all’art. 10 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, operante nell’ambito della copertura assicurativa obbligatoria, non ricomprende il danno predetto. Ad analoghe conclusioni si perviene nel caso in cui il datore di lavoro abbia stipulato una polizza che individui, quale oggetto della copertura assicurativa, una responsabilità civile modellata sul sistema risarcitorio ex art. 10, 11 d.P.R. n. 1124 del 1965”; Cass. 23 giugno 1992 n. 7663 “La regola dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro, di cui all’art. 10 d. p. r. n. 1124 del 1965, non opera – alla luce dei principi enunciati dalla corte cost. con le sentenze n. 184 del 1986 e 356 del 1991 – con riguardo al risarcimento del danno biologico conseguente all’infortunio (nella specie, danno estetico) corrispondente ad una menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé considerata, autonomamente valutabile rispetto al danno patrimoniale derivante da una riduzione della capacità lavorativa e rispetto al danno non patrimoniale costituito dalla somma delle sofferenze fisiche e morali conseguenti alle lesioni subite”; Pret. Milano 5 marzo 1992 “Posto che l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, disciplinata dal d. p. r. 30 giugno 1965, n. 1124, ha per oggetto i soli danni patrimoniali, connessi alla menomazione della capacità lavorativa dell’infortunato, il datore di lavoro responsabile dell’infortunio è tenuto a risarcire integralmente, secondo le regole generali in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, il danno morale e il danno biologico attinente a sfere diverse da quella lavorativa, a prescindere da qualunque indennizzo Inail eventualmente erogato, e senza che sia applicabile a tali tipi di danno l’esonero dalla responsabilità civile di cui all’art. 10 d. p. r. citato”; Pret. Livorno, 27 febbraio 1992 “L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non copre anche il danno biologico di per se stesso nella sua integralità, essendo volta a garantire la sola menomazione dell’attitudine al lavoro dell’assicurato; da ciò deriva che il datore di lavoro è tenuto al risarcimento integrale di tale specie di danno, operando l’esonero della responsabilità solo nei limiti in cui sussiste la copertura assicurativa e trovando applicazione, in mancanza, la responsabilità disciplinata dal codice civile”;

[42] la nuova disciplina ha innovato esclusivamente in materia di invalidità permanente, mentre nulla ha cambiato per quanto concerne l’inabilità temporanea assoluta per l’indennizzo della quale continueranno quindi ad essere erogate le indennità nelle stesse misure e con le medesime modalità previgenti. Continua ad applicarsi la disciplina originaria del T.U. anche per altre prestazioni assicurative come gli assegni per la “assistenza personale continuata”, gli “assegni di incollocabilità” , le “rendite di passaggioin caso di silicosi o asbestosi

[43] La provvisorietà, nelle beate intenzioni del legislatore, sarebbe giustificata dall’attesa di una più ampia disciplina dell’intera materia e dalla forte innovazione recata dall’art. 13 nel rivoluzionare il sistema previgente e nell’offrire una prima disciplina legislativa alla materia del danno biologico che finora si era retta – quale diritto vivente – sugli sforzi di dottrina e giurisprudenza.

[44] Nulla è stato modificato circa le prestazioni economiche ai superstiti in caso di morte dell’assicurato per causa lavorativa. Resta confermata pertanto, in caso di morte dell’assicurato per cause professionali, l’erogazione della rendita ai superstiti secondo la previgente disciplina prevista dal T.U. che conserva quindi contenuto di indennizzo del solo danno patrimoniale subito dai superstiti quale conseguenza diretta del loro rapporto di dipendenza economica con il defunto.

[45] Se al termine del periodo di inabilità temporanea non si rende ancora possibile l’accertamento medico-legale del danno biologico (come noto, occorre un certo periodo affinché si stabilizzino i postumi permanenti, perché il danneggiato deve giungere al “punto di non ritorno” in cui non si guarisce ulteriormente ne tuttavia si peggiora, o si dovrebbe peggiorare), è prevista l’erogazione di un indennizzo provvisoria, in vista di quella definitiva che dovrà poi essere effettuata non prima di sei mesi e non oltre un anno dalla ricezione della certificazione medica; il capitale definitivo non potrà comunque essere di importo inferiore a quello provvisorio, che in ogni caso non è ripetibile da parte dell’INAIL

[46] Cass. 20 giugno 1992 n.7577

[47] Cass. 10 novembre 2000 n. 14638

[48] convegno del 2 LUGLIO 2002 organizzato dalla  Associazione Giovani Avvocati di Torino (A.G.A.T.) e dal Centro Studi Domenico Napoletano, “Le riforme sul danno biologico e le nuove figure di danno”, relazione dell’Avv.  Casuccio “La riforma del danno biologico negli infortuni sul lavoro e malattie professionali: l’art 13 del D. Lgs. 38/2000

[49] Cfr ex multis Cass. 6 dicembre 1995  n. 12569, Cass. 26 ottobre 1995 n. 11143, Cass. 6 dicembre 1994 n. 10454, Cass. 3 febbraio 1990 n. 772; Cass. 5 settembre 1988 n. 5033. Da ultimo Cass 7 novembre 2002 n.15641, in Danno e resp., n.6/2003, 618

[50] Cass. settembre 1988 n. 5033

[51] Cass., sez. lav., 29 gennaio 2002, n. 1114, di cui  si legge in “La RC nel mobbing” di Bona-Monateri-Oliva, in questa medesima collana “Le nuove frontiere della responsabilità civile”, dove si cita anche Cass., Sez. Lav., 21 marzo 2002, n. 4080, (m) in Guida al Lavoro, 2002, n. 18, 28.

[52] Ex permultis Cass. 25 agosto 1997, n. 7977; Cass. 16 luglio 1997, n. 6516; Cass. 24 giugno 1997, n. 5635; Cass. 18 settembre 1996, n. 8344; Cass. 16 settembre 1996, n. 8286; Cass. 23 gennaio 1996, n. 477; Cass. 13 aprile 1995, n. 4235

[53] Con sentenza del 27 ottobre 1998, n. 10693 (sezione III), ha poi affermato che nella liquidazione del danno biologico, inteso come menomazione della integrità psicofisica della persona, in sè e per sè considerata, indipendentemente dalle ripercussioni che essa può comportare sulla capacità di lavoro e di guadagno del soggetto, non può essere utilizzato quale parametro di riferimento il criterio del triplo della pensione sociale, che si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale e non può pertanto servire a commisurare il danno conseguente alla menomazione degli attributi e requisiti biologico della persona in sè considerata

[54] le altre ipotesi sono marginali: art 598 CP (che, stabilendo la non punibilità delle offese in scritti e discorsi pronunciati davanti alle autorità giudiziarie quando le offese concernono l’oggetto della causa, prevede che il giudice con la sentenza posa ordinare la cancellazione delle offese e disporre l’assegnazione alla persona offesa di una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale) come confermato dall’art 89 CPC;art. 2 della legge n. 117/1988 (danno non patrimoniale da privazione della libertà personale per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave); art. 29, 9o comma, legge 675/1996 (danno non patrimoniale da violazione delle norme disciplinanti il trattamento dei dati personali).

[55] Cfr Corte Cost. 392 del 1994

[56] Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e 8828

[57] perché “ritiene il Collegio che la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059, in relazione all’art. 185 c.p. come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice dei 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza non può essere ulteriormente condivisa

[58] è lo stesso ragionamento con cui la Corte Cost. nel 1986 ampliò l’ambito della tutela ex art. 2043 al danno  biologico e che, secondo la Cassazione, oggi deve utilizzarsi per dare una interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 2059

[59] è la stessa Cassazione e rammentare come tale indirizzo si sia “formato nella vigenza del codice di procedura penale del 1930, caratterizzato dal rapporto di pregiudizialità necessaria tra giudizio penale e giudizio civile (art. 3 c.p.p. e art 295 c.p.c.) in caso di corresponsabilità di procedimenti, dell’efficacia preclusiva ai fini civili della decisione che pone termine al giudizio penale ( art. 25 c.p.p.) e dalla autorità del giudicato penale nel giudizio di danno anche “quanto alla responsabilità del condannato” (art. 27 c.p.p). In un sistema siffatto, erano eccezionali i casi in cui, in virtù del principio dell’unità della funzione giurisdizionale, il giudice civile poteva accertare l’esistenza del fatto penalmente rilevante: casi tutti condizionati dal presupposto negativo che la relativa questione non avesse costituito oggetto di indagine da parte del giudice penale per estinzione del reato e per altra causa” mentre oggi “… mutati i rapporti tra processo civile e penale a seguito dell’introduzione del nuovo codice di procedura penale (entrato in vigore nell’ottobre del 1989), e venuta meno la preminenza della giurisdizione penale su quella civile (artt. 75 e 652 c.p.p. vigente), tanto che è possibile che gli esiti siano nelle diverse sedi addirittura contrastanti in ordine all’apprezzamento di un medesimo fatto, la correttezza dell’interpretazione sinora data dall’art. 2059 in relazione all’art. 285 c.p. va sottoposta a verifica, onde vagliarne la persistente validità.”

[60] Ord. Trib. Roma 20 maggio 2002, in Corriere Giuridico 10/2002, 1331

[61] e con la n. 7713 del 7 giugno 2000

[62] Cendon, Esistere o non esistere, in Trattato breve dei nuovi danni, Padova, 2001, Vol. I, 10.

[63] Impostazione seguita dalla lucidissima sentenza del Tribunale di Locri sez.dist. Siderno del 6 ottobre 2000, che distingue appunto tra danno esistenziale puro e danno biologico-esistenziale: “Per danno biologico si deve intendere … il danno alla integrità psico-fisica della vittima. Esso non è riconducibile né alla figura dei danni patrimoniali, né a quella dei danni morali in senso stretto, ma è invece risarcibile come autonoma voce ai sensi degli artt.2043 c.c. e 32 Cost., in quanto costituente ingiusto danno alla salute dell’individuo.

Da esso va nettamente distinto il danno morale (in senso stretto), che è il patema di animo subito in conseguenza di un illecito di natura penalistica, riconducibile, per gli aspetti risarcitori, agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., e sussistente qualora l’illecito costituisca anche resto.

Ulteriore e diversa figura di danno è, poi quello esistenziale. Esso consiste nel danno che l’individuo subisce alle attività realizzatrici della propria persona, risarcibile ex art. 2043 c.c., e va distinto dal danno biologico in virtù della matrice medico legale di quest’ultimo. Tale figura di danno copre cioè tutte quelle lesioni che, non riconducibili a danni patrimoniali o biologici in senso stretto, insistono su interessi giuridicamente protetti e meritevoli di tutela all’interno del nostro ordinamento. All’interno del danno esistenziale possono comunque distinguersi il danno esistenziale puro ed il danno biologico-esistenziale: anche nella sfera esistenziale, infatti, possono essere presenti componenti “biologiche”. Ciò accadrà qualora la limitazione all’attività realizzatrice della propria persona sia non l’immediata conseguenza dell’illecito (ho subito l’illecito e quindi non posso fare più: danno esistenziale puro), ma la conseguenza “mediata” dall’aspetto biologico (sto male) conseguente l’illecito (sto male a causa dell’illecito subito e quindi non posso fare più), in una visione cioè dinamica. Le possibili voci riconducibili a simili categorie sono decisamente ampie, e si incentrano nella lesione della sfera ontologico-esistenziale, senza interessare aspetti medico legali, pur se talune figure possono presentare una duplice valenza -con aspetti rientranti in parte nel danno esistenziale, in parte nel danno biologico- o, come visto, essere legate per via mediata al danno biologico (gli illeciti risarcibili sotto la categoria del danno esistenziale, pertanto, e con un’elencazione non esaustiva, sono riconducibili a manifestazioni di “mobbing”, trasmissione di malattie, discriminazioni razziali, sessuali o religiose, uccisione di animali significativi per l’individuo, sequestro di persona, costrizione alla prostituzione, violazione del diritto alla riservatezza, induzione o agevolazione del consumo di droga, abusi sessuali, furto o danneggiamento di oggetti particolarmente cari, plagio da parte di sette o santoni, molestie sul lavoro, ingiustizie e vessazioni in ambito scolastico/universitario, abbandono di persone incapaci, ecc.). In tali illeciti, infatti, oltre alle tradizionali voci di danno già riconosciute e rinvenibili caso per caso, possono facilmente individuarsi tipologie di lesioni più correttamente riferibili alla sfera esistenziale.

Al danno esistenziale vanno poi ricondotte anche altre figure di danno già riconosciute dalla giurisprudenza: tra queste si evidenziano il danno alla vita di relazione, il danno alla serenità familiare, il danno alla serenità sessuale, con esclusione degli aspetti medico legali afferenti al danno biologico. Esse infatti non possono essere ricondotte alla figura del danno patrimoniale, neanche sub specie del danno indiretto, posto che la loro natura appare evidentemente diversa, pur essendo suscettibili di una valutazione patrimoniale. Né possono essere ricondotte al danno morale in senso stretto (risarcibile, ex art. 2059 cc), o al danno biologico (interessante aspetti medico-legali, anche se, con riferimento a quest’ultima figura, si è detto, potranno esservi interferenze). A simili argomentazioni, come anticipato, si deve quindi anche far ricorso per l’inquadramento dogmatico del danno alla vita di relazione: esso è un danno inerente le limitazioni alla possibilità di interagire con l’esterno, sia inteso come occasioni di rapporti umani (es. frequentazione di amici e parenti), sia come rapporto con la realtà esterna (es. recarsi in determinati luoghi), sia come limitazione allo svolgimento di attività (es. hobby, sport, attività culturali). In questi termini esso potrà o costituire una lesione della sfera attinente le attività realizzatrici della persona (considerando la limitazione quantitativa o qualitativa subita nelle possibilità di interagire con l’estero) e quindi afferente al danno esistenziale (rispetto al quale si pone come sottocategoria), o, invece, minare l’integrità psico-fisica della persona (qualora comporti una vera e propria patologia), e in tal senso si dovrà parlare di danno biologico.

Non potrà invece parlarsi, per i motivi suddetti, di danno alla vita di relazione come danno patrimoniale indiretto”.

[64] Sulla questione dei confini e del contenuto di tale danno rimandiamo ai numerosi contributi dottrinari, tra i quali in questa stessa collana v. “La RC nello sport” di Monateri-Bona-Castelnuovo e “La RC nel mobbing” di Monateri-Bona-Oliva. Cfr. Bona e Pintus, Danno esistenziale, in Dig. Ipertest., 2002; Torre, Danni esistenziali e onere della prova, in Danno e responsabilità, 2002, 781 ss.; Bilotta, La nascita non programmata di un figlio e il conseguente danno esistenziale, in Resp. Civ. Prev., 2002, 446 ss.; Pizzoferrato, Mobbing e danno esistenziale: verso una revisione dell’illecito civile, in Contratto e impresa, 2002, 304 ss.; Ziviz, La valutazione del danno esistenziale, in Giur. It., 2002, 440 ss.; Bona, Il danno non patrimoniale dei congiunti: edonistico, esistenziale, da lesione del rapporto parentale, alla serenità famigliare, alla vita di relazione, biologico, psichico o morale “costituzionalizzato”?, in Giur. It., 2002, 953 ss.; Bona, La violazione del rapporto familiare nel segno del danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2002, 158 ss.; Rondelli, Da Trieste in giù: il percorso del danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2002, 58 ss.; Cassano, La prima giurisprudenza del danno esistenziale, Piacenza, 2002; Ziviz, Mobbing e risarcimento del danno, in Resp. Civ. prev., 2001, 1028; Ziviz, Equivoci da sfatare sul danno esistenziale, in Resp. Civ. Prev., 2001, 817; Rossetti, Il danno esistenziale tra l’art. 2043 e l’art. 2059 c.c. , in Resp. Civ. Prev.,  2001, 809; Navarretta, Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, in Resp. Civ. Prev., 2001, 789; Franzoni, Il danno esistenziale come sottospecie del danno alla persona, in Resp. Civ. Prev., 2001, 777; Cendon, Violenza sessuale ad una minorenne e danno esistenziale dei familiari, in Famiglia e diritto, 2001, 513 ss.; AA.VV., Trattato breve dei nuovi danni, a cura di Cendon, Padova, 2001, Volumi I, II e III;  Bona e Castelnuovo, P.A., pretese del cittadino e danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2001, 981 ss.; Torino, Nascita inaspettata di figlia malforme e danno esistenziale della madre, in Corriere Giuridico, 2001, 781ss.; Greca, Danno da ritardo nell’attivazione dels ervizio di telefonia mobile ovvero un’ulteriore “voce” di danno esistenziale, in Il Giudice di Pace, 2001, 219; Ziviz, Danno biologico e danno esistenziale: parallelismi e sovrapposizioni, in Resp. Civ. Prev., 2001, 417 ss.; Cassano, Contravvenzioni illegittime e risarcimento del danno esistenziale, in Il Giudice di Pace, 2001, 193 ss.; Laghezza, immissioni acustiche e danno esistenziale: quali conseguenze per l’alterazione dell’ambiente di vita?, in Danno e responsabilità, 2001, 530; Cassano, Danno esistenziale, e così sia!, in Famiglia e diritto, 2001, 425 ss.; Bilotta, Il danno esistenziale: l’isola che non c’era, in Danno e responsabilità, 2001, 392 ss.; D’Adda, Il cosiddetto danno esistenziale e la prova del pregiudizio, in Foro it., 2001, I, 187; Chiarloni, Danno esistenziale e attività giudiziaria, in Riv. Tri. Dir. Proc. Civ., 2001, 759 ss.; Gazzoni, Alla ricerca della felicità perduta (Psicofavola fantagiuridica sullo psicodanno psicoesistenziale), in Riv. Dir. Comm., 2001, 675 ss.; Bona, Mancata diagnosi di malformazioni fetali: responsabilità del medico ecografista e risarcimento del danno esistenziale da “wrongful birth”, in Giur. It., 2001, 735 ss.; Cassano, Intervento di sterilizzazione, nascite indesiderate e danni incidenti nella sfera “esistenziale”, in Famiglia e diritto, 2001, 106 ss.; Bona, Danno medico legale e danno giuridico: una distinzione fondamentale nel dibattito sulle categorie di danno e sul contributo del medico legale nel risarcimento delle alterazioni esistenziali, in Tagete – Rivista medico giuridica sul danno alla persona, 2001, n. 1, 90 ss.; Favilli, Danno non patrimoniale e “danni esistenziali”, in Resp. Civ. prev., 2001, 461; Monateri, Manuale della responsabilità civile, Torino, 2001, 199 ss.; Bona, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?, in Famiglia e diritto, 2001, 185 ss.; Toia, Una nuova fattispecie di danno aquiliano: il danno esistenziale, in Foro Toscano, 2001, 12 ss.; Cendon, Esistere o non esistere, in Resp. Civ. prev., 2000, 1251 ss.; Bona, Danno morale e danno esistenziale, in Monateri, Bona, Oliva, Peccenini, Tullini, Il danno alla persona, Torino, 2000, Volume I, 99 ss.; Ziviz, Il danno edonistico un nuovo nome per il pregiudizio derivante dalla morte del congiunto, in Resp. Civ. prev., 2000, 1442; Peccenini, Danni riflessi e danno esistenziale, in Tagete – Riv. Medico giuridica sul danno alla persona, 2000, n. 4, 144 ss.; Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale, in Resp. Civ. prev., 2000, 930 ss.; De Marzo, La Cassazione e il danno esistenziale, in Corriere Giuridico, 2000, 873; Pizzetti, Il danno esistenziale approda in Cassazione, in Giur. It., 2000, 1352; Monateri, “Alle soglie”: la prima vittoria in Cassazione del danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2000, 836; Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata, in Danno e responsabilità, 2000, 841; Berti, Il danno psichico e il danno psicologico ai confini del danno esistenziale, in Tagete, 2000, n. 2, 80; Bona, Danno morale e colpa presunta ex art. 2054 c.c.: malgrado tutto le antiche regole resistono, in Danno e responsabilità, 2000, 844 ss.; Morlotti, Immissioni intollerabili e danno esistenziale, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2000, I, 561; Bilotta, Profili del danno esistenziale nella procreazione, in Resp. Civ. prev., 2000, 337 ss.; Monateri, Bona e Oliva, Mobbing – Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, 88 ss.; Ponzanelli, Sei ragioni per escludere il danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2000, 693; Cendon, Prospettive del danno esistenziale, in Fam. Dir., 2000, 257 ss.; AA.VV., Il danno esistenziale – Una nuova categoria della responsabilità civile, a cura di Cendon e Ziviz, Milano, 2000; Bona, Perdita del nascituro: un nuovo precedente del danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 2000, 89 ss.; Bellantoni, Lesione dei diritti della personalità, Padova, 2000; Cricenti, Il danno non patrimoniale, Padova, 1999, 166 ss.; Cassano, Identità personale e risarcimento del danno nel quadro dei diritti della personalità, Napoli, 1999; Longo, I diritti dei malati cronici e dei propri familiari, in Famiglia e diritto, 1999, 410 ss.; Ziviz, Il danno esistenziale preso sul serio, in Resp. Civ. prev., 1999, 1343 ss.; Bona, Danno alla persona, in Riv. Dir. Civ., 1999, 313 ss.; Ziviz, La tutela risarcitoria della persona – Danno morale e danno esistenziale, Milano, 1999; Monateri, Bona e Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999; Monateri, Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e responsabilità, 1999, 7; Marini, Una nuova lettura dottrinale del danno alla persona, in Danno e responsabilità, 1999, 588 ss.; Bona, Brevi osservazioni sulla possibilità di configurare il danno esistenziale, in Tagete – Rivista Medico Giuridica, 1999, n. 2, 36; Ziviz, L’evoluzione del sistema di risarcimento del danno: modelli interpretativi a confronto, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1999, 61 ss.; Bona e Castelnuovo, La perdita del frutto del concepimento: questioni di responsabilità medica e risarcimento del danno (un’ipotesi di danno esistenziale?), in Giur. It., 1999, I, 735 ss.; Ponzanelli, Limiti del danno esistenziale: postfazione al Convegno Triestino, in Danno e responsabilità, 1999, 360; Zeno-Zencovich, Law & Comics: Paperon de’ Paperoni, Gatto Silvestro, Bugs Bunny, Wile Coyote e la responsabilità civile, in Danno e responsabilità, 1999, 356 ss.; Pedrazzi, Il danno esistenziale: Trieste 13-14 novembre 1998, in Danno e responsabilità, 1999, 348 ss.; Monateri, Cittadinanza, libertà di coscienza e illecito civile, in Resp. Civ. Prev., 1999, 148 ss.; Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1998, 568 ; Monateri, La responsabilità civile, Torino, 1998, 299 ss.; Monateri e Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 380 ss.; Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996; Ziviz, Quale futuro per il danno dei congiunti? (Riflessioni indotte dalla sentenza n. 372/94 della Consulta), in Resp. Civ. prev., 1996, 297 ss.; Chiarloni, Su taluni aspetti processuali del risarcimento del danno per lesione dei diritti della personalità, in Riv. Trim. Proc. Civ., 1996, 1175; Citarella e Ziviz, Il danno da morte dell’animale d’affezione, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1995, I, 786-790; Cendon e Ziviz, Lesione della dignità del lavoratore e risarcimento del danno, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1995, I, 75 ss.; Busnelli, Interessi della persona e risarcimento del danno, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1995, 1 ss.; Ziviz, Alla scoperta del danno esistenziale, in Scritti in onore di R. Sacco, Vol. II, a cura di Cendon, Milano, 1994, 1299 ss.; AA.VV., La responsabilità extracontrattuale – Le nuove figure di risarcimento del danno nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Milano, 1994; Cendon, Gaudino e Ziviz, Responsabilità civile, Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 1193 ss.; Cendon, Gaudino e Ziviz, Responsabilità civile, ivi, 1992, 1377 ss.; Cendon, Gaudino e Ziviz, Responsabilità civile, ivi, 1991, 1005; Cendon, Gaudino e Ziviz, Responsabilità civile, ivi, 1990, 1049 ss.; Cendon, Responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 1041 ss.

[65] si veda Bona-Monateri-Oliva, “La RC nel mobbing” in questa stessa collana Le nuove frontiere della RC, Milano, 2002

[66] sul sito unicz.it/lavoro/sentenze-toscane

[67] con la sentenza Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372

[68] questo è il raffinato ragionamento della Corte Costituzionale con la sentenza del 1986: occorre partire dalla “distinzione tra evento dannoso o pericoloso, al quale appartiene il danno biologico, e danno-conseguenza, al quale appartengono il danno morale subiettivo ed il danno patrimoniale. Vale, infatti, distinguere da un canto il fatto costitutivo dell’illecito civile extracontrattuale e dall’altro le conseguenze, in senso proprio, dannose del fatto stesso. Quest’ultimo si compone, oltreché del comportamento (l’illecito è anzitutto, atto) anche dell’evento e del nesso di causalità che lega il comportamento all’evento. Ogni danno è, in senso ampio, conseguenza: anche l’evento dannoso o pericoloso è, infatti, conseguenza dell’atto, del comportamento illecito. Tuttavia, vale distinguere, anche in diritto privato (specie a seguito del riconoscimento di diritti, inviolabili costituzionalmente, validi anche nei rapporti tra privati) l’evento materiale, naturalistico, che, pur essendo conseguenza del comportamento, è momento od aspetto costitutivo del fatto, dalle conseguenze dannose, in senso proprio, di quest’ultimo, legate all’intero fatto illecito (e quindi anche all’evento) da un ulteriore nesso di causalità. Non esiste comportamento senza evento: il primo è momento dinamico ed il secondo momento stativo del fatto costitutivo dell’illecito. Da quest’ultimo vanno nettamente distinte le conseguenze, in senso proprio, del fatto, dell’intero fatto illecito, causalmente connesse al medesimo da un secondo messo di causalità.

Il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute mentre il danno morale subiettivo (ed il danno patrimoniale) appartengono alla categoria del danno-conseguenza in senso stretto.

La menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso, che trasforma in patologia la stessa fisiologica integrità (e che non è per nulla equiparabile al momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico del danno morale subiettivo) costituisce l’evento (da provare in ogni caso) interno al fatto illecito, legato da un canto all’altra componente interna del fatto, il comportamento, da una nesso di causalità e dall’altro, alla (eventuale) componente esterna, danno morale subiettivo (o danno patrimoniale) da altro, diverso, ulteriore rapporto di causalità materiale. In senso largo, dunque, anche l’evento-menomazione dell’integrità fisico-psichica del soggetto offeso, è conseguenza ma tale è rispetto al comportamento mentre a sua volta è causa (ove in concreto esistano) delle ulteriore conseguenza, in senso proprio, dell’intero fatto illecito, conseguenze morali subiettive o patrimoniali.”

[69] La distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza costituisce probabilmente una sovrastruttura dogmatica inutile tanto che essa, dopo la sentenza 184/86, è rimasta lettera pressoché morta per tutta la copiosissima giurisprudenza successiva in materia di danno biologico, morale ed esistenziale, salvo talvolta essere recuperata come è accaduto appunto con la sentenza 9009. Che la dicotomia danno-evento danno-conseguenza sia ormai priva di concreta utilità è stato di recente espressamente sancito dalle Sezioni Unite con la sentenza sul danno morale nel caso Seveso (Cass S.U. n. 2515 del 21 febbraio 2002) che ha aperto nuovi importanti visuali sul danno morale ed esistenziale.

[70] cfr. Trib. Pinerolo, 6 febbraio 2003, n. 30, G.U. Reynaud in un caso di mobbing: “…in materia di danni alla persona, accanto alle tradizionali tipologie del danno patrimoniale, del danno morale strettamente inteso e del danno biologico, viene in rilievo anche la categoria del danno esistenziale. Nell’area del danno non patrimoniale, essa si distingue da quella del danno morale – oltre che per il diverso regime giuridico, la prima rientrando nella generale disciplina di cui all’art. 2043 c.c e la seconda essendo soggetta alla previsione dell’art. 2059 c.c. – per la sua caratteristica di abbracciare quelle compromissioni dell’esistenza quotidiana che siano “naturalisticamente” accertabili e percepibili, traducendosi in modificazioni peggiorative del normale svolgimento della vita lavorativa, familiare, culturale, di svago, laddove, come si è detto, il danno morale è un pati interiore che prescinde da qualsiasi ricaduta sull’agire umano. E’ ben vero che la sofferenza, l’angoscia, il malessere psichico (non rilevante come patologia medica) possono indurre sostanziali cambiamenti nell’esistenza quotidiana; occorre tenere conto, tuttavia, che, per un verso, non sempre ciò accade e, per altro verso, laddove tale consequenzialità si apprezzi saranno ravvisabili due distinte “voci” di danno, sicché, sul piano della liquidazione – necessariamente equitativa – occorrerà valutare attentamente, e distintamente, la natura e la gravità dei diversi profili di pregiudizio per indennizzare “tutto” il pregiudizio, evitando, però, duplicazioni risarcitorie. Dal danno biologico – che, pure, rientra in una concezione lata di danno esistenziale, posto che, in tal caso, ciò che si risarcisce non è la lesione psico-fisica in sé, ma la ricaduta che essa produce sull’agire non reddituale del danneggiato (cfr. C. cost., sent. 372/1994), sicché il regime giuridico è il medesimo – il danno esistenziale (in senso stretto) si distingue a seconda che, a monte, vi sia una lesione del bene della salute fisica o psichica (accertabile con una consulenza medico-legale), ovvero l’iniuria concerna la lesione di altri beni della persona giuridicamente rilevanti”. La pronuncia è particolarmente interessante anche perché prospetta il danno esistenziale non tanto sulla base della distinzione danno-evento / danno-conseguenza, quanto piuttosto nell’attribuire al diritto alla personalità moralità del dipendente (art. 2087) l aveste di “interesse giuridico protetto dall’ordinamento” che consente di ritenere ingiusto pregiudizio conseguente alla lesione, come ha insegnato Cass. S.U. n. 500/1999: in quel caso la lesione del diritto a svolgere mansioni confacenti con il livello d’inquadramento attribuito (art. 2103 c.c.), della dignità quale donna e lavoratrice (art. 41, comma 2 Cost.), del diritto a realizzarsi senza indebite costrizioni nel mondo del lavoro e in altre formazioni sociali, in particolare in seno alla famiglia, ove la donna lavoratrice deve poter svolgere serenamente la propria essenziale funzione anche materna (artt. 2, 29, 37 comma 1 Cost.).

[71] che peraltro correttamente critica la ormai desueta impostazione per cui i danni non patrimoniali che oggi tranquillamente definiamo di matrice esistenziale – ma che di biologico nulla avevano – venivano inclusi in una nozione eccessivamente onnicomprensiva di danno biologico al solo fine di sottrarli al 2059, ma tradendo la purezza dogmatica ed operazionale del danno biologico come danno accertabile medicolegalmente in quanto patologia.

 

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