IL NESSO DI CAUSA NEGLI INFORTUNI SUL LAVORO
IL NESSO DI CAUSA
Sommario: 4.1. La questione del nesso di causa 4.2. Il lavoro come causa del rischio 4.3. Le teorie sul nesso di causa: civile e penale a confronto 4.4. Nesso di causa e condotte omissive: il nuovo orientamento delle S.U. (Cass. n. 30328/02) 4.5. I fattori concausali
4.1. La questione del nesso di causa
Come in tutte le branche della RC, anche nel settore che ci interessa il problema del nesso di causa occupa una importanza primaria: qui però si tratta, oltre che di fare i conti con la struttura dei criteri di imputazione contrattuale o extracontrattuale, di conciliarli con le peculiarità del social security system che per certi versi corre parallelo a quello del tort system ma con il quale interagisce sotto vari aspetti. Uno di essi è certamente quello del nesso di causa, risolto nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria dalla sufficienza che l’infortunio sia avvenuto in occasione di lavoro [1].
Il problema è se sia sufficiente e necessario che l’infortunio si sia verificato durante l’orario di lavoro oppure occorra una effettiva correlazione tra l’ambiente di lavoro e l’evento tale per cui l’evento non avrebbe potuto verificarsi se il danneggiato non stesse attendendo alle proprie mansioni.
E’ chiaro che la prospettiva risposta corretta sia la seconda e che sia necessario un collegamento (sia pure mediato e indiretto) tra il rischio e l’ambiente di lavoro o le modalità della prestazione lavorativa che vada oltre la semplice coincidenza cronologica e topografica. Se così non fosse, si dovrebbe attribuire alla responsabilità del datore il carattere di invincibile oggettività che essa in effetti non ha.
Il criterio-guida è dato dal tipo di rischio cui il lavoratore si è trovato sottoposto ed a causa del quale ha subito l’evento dannoso: se il rischio è generico, ossia non diverso a quello che avrebbe corso chiunque indipendentemente dal fatto di esser addetto ad una mansione lavorativa, tale rischio non può essere addossato al datore al quale non si può imporre l’adozione di misure di prevenzione di eventi suscettibili, per la loro varietà, di essere sottratti ad ogni possibilità di controllo. Il principio, si badi, di per se non può considerarsi ne rigoroso ne assolutorio perché trova il suo limite ed il suo contenuto nel disposto dell’art. 2087 che impone l’adozione di tutte le misure (tipizzate dalle norme antinfortunistiche, o atipiche) idonee ad evitare infortuni: è chiaro che un pavimento malridotto espone allo stesso rischio di inciampare tanto il quisque de populo quanto il lavoratore, ma è altrettanto chiaro che nessun datore uscirebbe mai vittorioso da una causa di risarcimento intentata dal dipendente caduto su quel pavimento limitandosi a sostenere che si trattava di un rischio “generico”. E’ infatti l’art 2087 ad imporre che il pavimento dell’ufficio o dello stabilimento sia tenuto in condizioni idonee all’utilizzo.
La centralità della tematica del rischio è chiara, perché diventa il punto chiave per valutare se accollare le conseguenze dell’evento al datore di lavoro laddove – come spesso capita – nella genesi dell’infortunio non intervenga soltanto il fattore lavoro ma altre possibili componenti causali: in tali casi si dovrà attribuire forza causale alla “occasione di lavoro” tutte le volte in cui il lavoro abbia determinato l’esposizione del lavoratore all’azione lesiva o, in altre parole, tutte le volte in cui il rischio in seguito al quale è conseguito l’infortunio deriva dal lavoro svolto[2].
4.2. Il lavoro come causa del rischio
Il lavoro, abbiamo visto, può essere una delle concause dell’infortunio: per avere valenza di fattore causale tale da comportare l’addebito di responsabilità, deve essere causa del rischio (che appunto per questo è professionale e rientra nell’assicurazione), o quantomeno causa di aumento del rischio.
Per far luce sul punto segnaliamo due recenti pronunce di legittimità, la n..1109 del 1 febbraio 2000 e la n. 4433 del 7 aprile 2000 [3], aventi ad oggetto un evento comune ad entrambi i casi, ossia proprio la caduta di un lavoratore sul pavimento dell’ufficio. Nell’un caso l’indennizzabilità viene esclusa perché la caduta non è stata causata da una maggiorazione del rischio recata dalla mansione svolta (la dipendente era caduta semplicemente mentre si spostava da un punto all’altro del locale), nell’altro l’evento viene ricondotto a responsabilità datoriale perché al lavoratore era stato comandato di svolgere una mansione che comportava la necessità di transitare sul pavimento dissestato.
Così si legge in Cass. n. 1109 del 2000, nel caso di una impiegata scivolata su di una matita posta a terra mentre rientrava al suo posto dopo aver eseguito fotocopie richieste dal suo dirigente: “ricorre l’occasione di lavoro – che dà luogo ad infortunio risarcibile – solo quando l’attività lavorativa esponga il prestatore d’opera ad un rischio diverso da quelli gravanti sulla generalità della popolazione o aggravi questi ultimi in misura non trascurabile, pur non richiedendosi che esso sia quello tipico della specifica attività lavorativa, e non essendo per contro sufficiente che l’infortunio avvenga in luogo di lavoro o nel tempo del suo svolgimento“.
Così è invece Cass. n. 4433 del 2000: “poichè qualsivoglia attività professionale implica, oggi e vieppiù in futuro, in assenza di adeguate strutture di supporto una dinamica di comportamenti manuali e di connessi rischi intrinseci, che il legislatore del 1965 neppure poteva immaginare (telefonia cellulare, fax, strumenti informatici e di duplicazione, ecc.) è riconducibile al concetto di “occasione di lavoro” – per effetto di rischio generico aggravato – la caduta dell’avvocato che si recava, attraversando il pavimento sconnesso del corridoio a seguito di lavori di ristrutturazione in corso, nel locale ove era ubicata la fotocopiatrice per fotocopiare documenti necessari per ilo svolgimento del proprio lavoro. Sussiste infatti la responsabilità del datore di lavoro qualora il nesso di causalità, richiesto da dottrina e giurisprudenza per la configurabilità dell’infortunio sul lavoro ossia tra prestazione lavorativa e sinistro, sia tale che l’evento dipenda dal rischio inerente ad un atto intrinseco a quelle prestazioni, o comunque strettamente connesso o prodromico con il compimento delle medesime (riconosciuto ricorrente, nel caso di specie, a causa della pavimentazione insidiosa dei locali che il legale doveva percorrere a cagione e per l’espletamento della sua attività di professionista alle dipendenze dell’ente datore di lavoro).”[4]
4.3. Le teorie sul nesso di causa: civile e penale a confronto
Mancando nel codice civile una norma che tratti la questione del nesso di causa, l’interprete si avvale usualmente della disciplina contenuta nel codice penale (artt. 40 e 41 CP) e delle teorie elaborate dalla dottrina e giurisprudenza penalistica.
Bisogna sgomberare il campo da quello che per molto tempo è stato un problema particolarmente dibattuto, ossia se l’art. 1223 – nella parte in cui stabilisce che si può ottenere il risarcimento del solo danno che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (o del fatto illecito) – riguardasse oltre che la selezione dei danni risarcibili anche la questione del nesso di causalità tra fatto ed evento dannoso.
Si contrapponevano, due opposti orientamento giurisprudenziali, in base al primo dei quali (espresso da varie sentenze tra cui Cass n.11396/98 e2037/00) l’art. 1223 avrebbe la funzione di selezionare tra gli eventi dannosi lamentati dalla vittima quelli da porre in concatenazione causale con la condotta sulla base del loro essere diretti ed immediati. Per questa via quella giurisprudenza giungeva ad escludere il risarcimento del danno non patrimoniale alle c.d vittime di rimbalzo che, soffrendo per le sofferenze del proprio familiare, non sono colpiti in modo diretto e immediato dalla condotta lesiva: tale danno, essendo in vita la vittima della lesione, sarebbe solo un danno costituente conseguenza mediata e indiretta della lesione, e come tale non risarcibile a norma dell’art. 1223.
Il secondo orientamento enuncia che “il criterio in base al quale sono risarcibili i danni conseguiti dal fatto illecito (o dall’inadempimento in tema di responsabilità contrattuale), deve intendersi, ai fini della sussistenza del nesso di causalità, in modo da comprendere nel risarcimento i danni indiretti e mediati, che si presentino come effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale”
Il contrasto giurisprudenziale è stato composto dall’intervento risolutore delle Sezioni Unite facendo proprio il secondo degli orientamenti esposti: “la questione della causalità di fatto è regolata dagli artt. 40 e 41 del codice penale e non dall’art 1223 CC, il quale attiene all’oggetto dell’obbligazione risarcitoria … e quindi riguarda il problema della selezione dei danni risarcibili e non quello del nesso causale“. Il giusto criterio con il quale porre in relazione causale fatto e danno sarebbe dunque quello della teoria della condicio sine qua non (in base alla quale l’evento dannoso è da considerare causato dalla condotta quando, ferme restando le altre condizioni, esso non si sarebbe verificato in assenza di quella) temperata dal correttivo della teoria della causalità adeguata o della regolarità causale (in base a cui, all’interno delle serie causali che il criterio della condicio sine qua non ha evidenziato, assumono rilievo solo quelle non appaiono del tutte inverosimili nel momento in cui viene posta in essere la condotta causante). Il risultato è che il nesso di causalità tra fatto illecito ed evento può anche essere indiretto e mediato purchè il danno si presenti come un effetto normale secondo il principio della regolarità causale [5].
Con l’espressione “nesso di causalità” si intende l’insieme della condizioni empiriche antecedenti sotto il profilo spaziale e temporale ad un determinato evento naturalistico ed allo stesso ricollegate in base ad una uniformità regolare enunciabile in una legge scientifica di matrice statistica.
Normativamente la disciplina è espressa innanzitutto dall’art 40 CP [6] il cui primo comma, se proclama la necessità che vi sia un nesso di causa tra condotta ed evento, in effetti non contribuisce affatto a risolvere il vero problema, ossia come selezionare (tra le condizioni antecedenti) quelle da porre in correlazione causale con l’evento[7].
Ecco perchè sono venute alla ribalta varie teorie sul rapporto di causalità, tutte finalizzate a dare contenuto a quello che è un elemento necessario della fattispecie di reato e che come tale deve rispondere all’esigenza di tassatività della norma incriminatrice.
Passiamo, riassuntivamente, ad accennare ai tre principali orientamenti.
Il primo è quello dato dalla teoria della condicio sine qua non o dell’equivalenza delle condizioni, secondo la quale è causa qualsiasi antecedente in mancanza del quale l’evento non si sarebbe realizzato, indipendentemente dal concorso di concause preesistenti, concomitatanti o sopravvenute. La condotta umana è considerata causa dell’evento purché sia uno di quegli antecedenti. la teoria però presenta un punto d’ombra nell’eccessiva dilatazione del concetto di causa e nella mancanza di un limite logico e temporale al processo di eliminazione mentale con il quale si ricostruisce la catena causale (con il procedimento di eliminazione mentale, si valutano tutti gli antecedenti dell’evento e si procede mentalmente ad eliminarne uno per uno: se, eliminato uno di quegli antecedenti, si valuta che l’evento si sarebbe comunque verificato, quell’antecedente non è una causa. Se eliminando l’antecedente viene meno l’evento, significa che quell’antecedente è la causa, o una delle cause). La teoria non è quindi in grado di spiegare l’eziologia di un evento in tutti i casi in cui non si sappia a priori quali siano gli antecedenti idonei a provocare un dato evento: non c’è grande problema nell’affermare il nesso di causa tra la fucilata e la morte (se elimino mentalmente lo sparo, ottengo che la morte non si verifica … a meno che la vittima sia morta di morte naturale proprio in quel momento !); ma se devo individuare la causa di una morte per tumore ai polmoni, dovrò inserire negli antecedenti varie concause alcune delle quali sarà possibile inserire solo se a priori si sa essere idonee a cagionare la neoplasia. Se non si sa a priori (in base alla scienza) che l’esposizione all’amianto sia di per se una possibile causa di tumori, non c’è modo di scoprilo con una mera operazione di eliminazione mentale.
Un correttivo a tale problema è dato dalla teoria della causalità adeguata, secondo cui l’antecedente (tra cui, se del caso, la condotta dell’uomo) è causa dell’evento quando è adeguato ossia quando – secondo l’id quod plerumque accidit da valutarsi in astratto, ex ante – è idoneo a cagionarlo in base ad una valutazione di comune esperienza. Ne emerge che il rapporto causale non sussista ogni qual volta alla condotta siano conseguiti effetti straordinari o atipici. Difetto della teoria è che essa estende eccessivamente il campo della irresponsabilità, offrendo al reo facile scappatoia nel sostenere la non prevedibilità ex ante dell’evento.
Con la teoria della causalità umana dell’Antolisei, affinché sussista il nesso causale, è necessaria la presenza di due elementi: quello positivo consistente nella condotta dell’uomo quale condizione dell’evento (condicio sine qua non), quello negativo consistente nel fatto che l’evento non sia dipeso dal concorso di fattori eccezionali che rendano del tutto occasionale il nesso tra condotta umana ed evento: solo l’evento eccezionale (quindi imprevedibile) sfugge alla connessione causale con la condotta umana.
Il limite connaturato ai tre filoni ed in generale all’intera tematica del nesso di causa è dato dalla necessità di avvalersi di parametri scientifici che il più delle volte non danno criteri matematici ma solo statistici di selezione nell’ambito degli antecedenti.
Ecco perchè il risultato finale degli sforzi dottrinari si risolve nell’accogliere la teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche “di copertura” (essenzialmente statistiche) in base alle quali un fattore può essere considerato causale quando si accerta, in termini di forte probabilità, che esso regolarmente produce quel determinato evento.
4.4. Nesso di causa e condotte omissive: il nuovo orientamento delle S.U. (Cass. n. 30328/02)
Il concetto di “forte probabilità” comporta problemi di definizione e di delimitazione perché – stante l’assenza di linee guida precise – può essere interpretato con la massima o la minima estensione: non per nulla vi sono ordinamenti giuridici, come quello anglosassone, che utilizzano il parametro della probability causation per cui, in base a criteri convenzionali, si stabilisce una soglia di probabilità (espressa in percentuale) al di sopra della quale si ritiene accertato il nesso di causa, mentre al di sotto lo si esclude.
Da noi il tema è stato affrontati dalla giurisprudenza in modi differenti, sino a giungere all’ultimo arresto delle Sezioni Unite dato dalla sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002 [8] che respinge la rigidezza (ma anche la chiarezza) di un sistema improntato alla probability causation.
La pronuncia ha ad oggetto il tema del nesso di causalità con particolare riferimento a reati omissivi impropri che sono quelli che generalmente vengono in rilievo nell’ambito ella responsabilità datoriale per infortuni e malattie professionali (in quanto è normalmente una condotta omissiva che viene contestata al datore e posta in rapporto di causa-effetto con la lesione patita dal lavoratore, mediante il raffronto con il paradigma della condotta corretta, prudente, diligente, rispettosa delle norme specifiche antinfortunistiche).
Il revirement delle Sezioni Unite riguarda expressis verbis il settore della causalità giuridica penale nei reati omissivi impropri del medico, pur con vari cenni al settore del lavoro che qui ci interessa.
Per decidere se i principi espressi dalla sentenza siano trapiantabili de plano, occorre verificare se il nesso di causa si atteggi nel medesimo modo nella responsabilità penale (che risponde a criteri di tassatività e tipicità delle fattispecie criminose e che non prescinde mai dall’accertamento dell’elemento soggettivo) ed in quella civile, avendo cura di tener conto che nel nostro campo il criterio di imputazione non è solo quello aquiliano che con il penale ha molti punti di contatto, ma anche quello contrattuale.
Qual è il principio che la sentenza ha espresso? E’ una sorta di tertium genus intermedio tra l’orientamento più flessibile e quello che propugna l’assoluta certezza sull’esistenza del nesso di causa,(che, in quanto tale, potrebbe rivelarsi la tomba di ogni azione di responsabilità nella quale ci si trovi ad applicare leggi scientifiche o statistiche o massime d’esperienza).
Questo il problema: nell’operazione di individuazione del nesso di causa ci si deve avvalere – laddove possibile – di leggi matematiche che consentano di collegare in precisi ed inderogabili rapporti di causa/effetto fatti posti in successione diacronica, ma poiché succede assai più frequentemente che ci si debba rivolgere a leggi statistiche [9] che dell’esistenza del rapporto causa/effetto diano si limitino a dare contezza in termini di più o meno alta percentuale di probabilità [10], qual è il criterio con il quale determinare nel caso concreto tale percentuale ?
La complicazione, nel caso dei reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione, è che si tratta di comparare la condotta omissiva tenuta dall’agente con un modello alternativo di comportamento imposto dalla legge: è responsabile solo chi viola i doveri deviando dal cliché legale (che a sua volta identifica la posizione di garanzia cui è tenuto l’agente) non impedendo il verificarsi dell’evento.
Tutto ciò, in ambito penalistico, pone problemi rispetto all’esigenza di tipicità e tassatività della norma incriminatrice, da cui la scelta della Corte di non accogliere l’orientamento che ritiene sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” dell’azione impeditiva dell’evento [11].
Questa è infatti una impostazione – basata sul parametro dell’aumento del rischio o della mancata diminuzione del rischio – che, se presenta qualche attrito con l’esigenza di tassatività tipica del penale, conserva nel civile buona parte della sua validità. Si tratta di verificare se la condotta omesso dall’agente che vi era tenuto avrebbe eliminato o almeno diminuito il danno con “serie ed apprezzabili probabilità di successo”.
Il difetto penalistico di questa impostazione è che quella probabilità possa ridursi troppo al di sotto del grado di “certezza certa” che rappresenta l’obiettivo che l’accertamento del nesso mira a raggiungere, perché come osserva la Corte: “con la tralaticia formula delle “serie ed apprezzabili probabilità di successo” dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di probabilità indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui”: “così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinti, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica”.
Insomma, la preoccupazione è che la teoria dell’aumento del rischio possa amplificare in maniera incontrollabile il campo della responsabilità per omesso impedimento dell’evento fino a ricomprendere quello della responsabilità per condotte di pericolo o per mere condotte. Il che, per il diritto penale, è certamente illegale.
Sul versante opposto si pone l’orientamento per cui il nesso di causa tra l’omissione e l’evento venga ritenuto sussistente solo se si accerti con certezza (cioè con grado di probabilità prossima a cento) che la condotta omessa cui l’agente era tenuto avrebbe impedito l’evento.
Si è detto che non è neppure questo il criterio propugnato dalle S.U. che in effetti offrono una soluzione intermedia. Ci pare che sia così perché la sentenza non pretende che siano raggiunte soglie di probabilità prossime a cento ne si accontenta che la dimostrazione del nesso venga effettuata mediante l’enunciazione apodittica e generica dell’aver riscontrato un grado apprezzabile di probabilità.
La sentenza dà per acquisito che il principio di causa penalmente rilevante stabilito dagli articoli 40 e 41 CP “si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile”, in difetto di apposita disciplina civilistica.
Il che è vero, come abbiamo ricordato in principio di paragrafo, ma non esime dal tener presente la differenza essenziale tra i due settori: mentre nel penale il cardine è quello della tipicità e tassatività delle fattispecie, nel civile la struttura del fatto illecito è aperta e connotata da atipicità (la Consulta nel 1986 definì il 2043 CC come “norma in bianco”), così come lo schema della responsabilità contrattuale è predisposto per esser applicato ad una serie teoricamente infinita di rapporti contrattuali atipici (oltre che a quelli tipici i quali, peraltro, spesso sono regolati con norme integrative speciali quale a titolo meramente esemplificativo, l’art 1667 in tema di appalto). In effetti, poi, il perno attorno al quale ruota la responsabilità civile è quello del modo di (e della scelta del soggetto cui) allocare il costo sociale degli incidenti, esigenza cui è perfettamente funzionale la teoria dell’aumento o mancata diminuzione del rischio.
Nel civile poi vi sono vasti settori in cui la responsabilità viene imputata in base a modelli presuntivi, o ad inversioni dell’onere probatorio (come in tutti i casi in cui sia previsto il dovere di prevenzione, con addossamento all’obbligato della prova di non aver cagionato il danno), come accade nell’ambito della responsabilità contrattuale e di quella aquiliana oggettiva.
Ulteriore complicazione nel nostro campo è che qui abbiamo un social security system nel cui ambito la prova del rapporto di causalità è facilitata per via delle presunzioni semplici [12] e della presunzione legale di eziologia professionale [13] per le malattie tabellate, accanto ad un tort system nel quale secondo la giurisprudenza è il lavoratore infortunato o affetto da tecnopatia a dover fornire la prova del nesso di causa dovendo invece il datore dimostrare di avere adottato le misure che erano idonee ad evitare il danno: “qualora eventi lesivi eccedenti la copertura approntata dall’assicurazione obbligatoria per infortunio sul lavoro o malattia professionale abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro, viene in rilievo l’art. 2087 c.c., che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato. In tal caso grava sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altro; mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ovvero che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi” [14] ; incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altro, sicché solo quando il lavoratore abbia fornito la prova della nocività dell’ambiente di lavoro e della dipendenza dell’evento da tale ambiente sorge per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi”[15] .
Il rigore che traspare da tale orientamento va tuttavia letto alla luce di alcune pronunce che ammettono la prova della sussistenza del nesso di causa mediante presunzioni sulla base dell’accertamento della condotta contraria ai doveri di cui all’art. 2087 ed idonea, secondo un criterio di regolarità, a cagionare il danno. Se una condotta od omissione è regolarmente foriera di determinate conseguenze perniciose, tale regolarità o normalità statistica può contribuire ad alleviare l’onere probatorio che incombe sul lavoratore.
Così per esempio si è ritenuto [16] che in un caso di malattia ad eziologia multifattoriale (come la polmonite batterica) la prova del nesso di causalita’ relativo all’origine professionale della malattia – pur non potendo essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili ma necessitando di concreta dimostrazione – può essere data anche in termini di “probabilità qualificata”, essendo impossibile nella maggior parte dei casi ottenere la certezza dell’eziologia: l’operazione si compie verificando l’idoneità di tutti gli elementi del caso (quali i dati relativi ai rischi epidemiologici presenti nella località dove si trova il posto di lavoro) a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giuridica.
Il ragionamento che la giurisprudenza segue è che “se è innegabilmente certo quel che cade sotto i nostri sensi, quel che è sperimentabile ed è sperimentato, se è innegabile, dunque, che l’esame istologico e l’esame autoptico danno certezza, è altrettanto indubbio che il giudice, se deve dare pieno credito alla certezza scaturente da determinati dati sperimentali, non può non attribuire identica certezza – o, se si vuole, un elevato grado di probabilità o credibilità razionale – a dati che, se non hanno l’immediatezza, l’evidenza, dei primi, i quali, in qualche modo, dettano la certezza, sono logicamente interpretabili come altrettanti parametri di verità o di certezza in quella direzione. In altri termini, oltre alla certezza fondata su dati empirici – si potrebbe dire, fondata su dati documentali – v’è la certezza fondata sulla deduzione, sulla logica, certezza non meno certa della prima, allorché gli elementi dai quali la deduzione muove siano di innegabile spessore e siano esaminati correttamente secondo le leges artis del settore in questione” [17]
La questione dell’onere probatorio sul nesso di causa va poi letta anche alla luce del consolidato orientamento della Cassazione [18] che tende a limitare l’area dei fatti interruttivi del nesso causale con riferimento alla condotta del dipendente: si dice infatti che la responsabilità datoriale persiste anche a fronte di una condotta imprudente del dipendente [19], laddove tale condotta sia stata determinata o agevolata da una organizzazione aziendale non rispettosa delle norme antinfortunistiche nella colpevole ignoranza ed inerzia del datore di lavoro [20]. In casi del genere il datore non potrà legittimamente invocare il concorso di colpa del lavoratore danneggiato [21], il che ovviamente varrà a maggior ragione nelle ipotesi in cui la condotta del dipendente si riveli non frutto di una libera determinazione ma attuazione di uno specifico ordine di servizio del datore, o quando l’apparente concorso di colpa sia imputabile ad un lavoratore di giovane età e professionalmente inesperto addetto ad una macchina di particolare pericolosità [22].
Dunque, il contrasto che le S.U. sono state chiamate a risolvere è la questione se “in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità “vicino alla certezza” cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”, ovvero siano sufficienti a tal fine soltanto “serie ed apprezzabili probabilità di successo della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento“. Sul tema le S.U. ricordano essersi delineati due indirizzi interpretativi all’interno della quarta sezione della Corte di cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario[23] che ritiene sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’azione impeditivi dell’evento, anche se limitata e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale è richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza”, e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento” [24].
Prima di riportare i passi salienti della motivazione, anticipiamo in favore del lettore i principi di diritto enucleati dalla Corte circa il problema dell’accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri:
a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
b) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificare la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.
c) L’insufficiente, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.
La sentenza è di interesse tale per il nostro campo d’indagine che riteniamo valga la pena di riporne in nota i passi più importanti [25].
4.5. I fattori concausali
Nel nostro ordinamento vige (art. 41 CP) il principio dell’equivalenza delle cause che danno luogo all’evento, nel senso che se questo è stato conseguenza di più fattori, ciascuno dei quali fornito di un qualche rilievo causale, anche si semplice accelerazione od aggravamento, non interessa farne una graduatoria, perché tutti hanno per legge la stessa importanza.
Ed infatti, con particolare riferimento alle malattie professionali neoplastiche, si ritiene sussistente il nesso di causa anche quando il tumore sia stato concausato da fattore lavorativo e da fattori estranei: è dunque sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia, da cui consegue l’evento, e che non vi sia prova che tale malattia si ricolleghi al sopraggiungere di fattori eccezionali e/o atipici, con la conseguenza che il nesso di causalità deve dunque ritenersi sussistente anche quando la malattia sia stata concausata da fattori estranei all’ambiente di lavoro, come, ad esempio, l’assunzione volontaria del fumo di sigaretta.
La Cassazione, con la recentissima sentenza 9 aprile 2003 n. 5539, si è occupata di un caso in cui i giudici di merito avevano escluso dal risarcimento del danno biologico la percentuale che in base alla consulenza medico legale era eziologicamente ricollegabile ad una predisposizione fisica del lavoratore ed a sue infermità pregresse: si trattava di un lavoratore che, avendo subito un demansionamento illegittimo cui era seguito un altrettanto illegittimo licenziamento, era caduto in grave crisi depressiva che lo aveva costretto ad una pesantissima terapia farmacologica. Ebbene, il Tribunale in funzione di giudice d’appello accertava che il soggetto fosse affetto da sindrome ansiosa depressiva e da obesità, e quantificava il danno nella misura del 50 % di invalidità, di cui il 25% attribuito a causa lavorativa, e per questo motivo condannava il datore a risarcire tale 25%.
La Corte ha invece ritenuto non potersi addossare al danneggiato una parte del danno quando la sua verificazione non sia a lui imputabile e che quindi nel caso di specie doveva prescindersi dal fatto che la predisposizione fisica del danneggiato avesse avuto una efficacia eziologica, dal punto di vista oggettivo, nella determinazione dell’evento dannoso, in quanto essa, rispetto alla patologia insorta per effetto del comportamento illecito del datore, costituiva un antecedente condizionante o concausa naturale nella produzione dell’evento dannoso, senza incidere però sulla responsabilità risarcitoria del danneggiante non valendo a ridurla proporzionalmente.
Ecco perché il giudice di merito avrebbe dovuto porre a carico del datore la totalità dei danni cagionati al lavoratore in ragione dell’accertato concorso tra causa imputabile al datore (provvedimenti di illegittima dequalificazione e di illegittimo licenziamento) e causa non imputabile al lavoratore (predisposizione organica e infermità pregresse), destinata come ogni causa naturale a non concorrere nella determinazione dei danni, da addossare nella loro totalità all’autore della condotta imputabile.
Questo l’importante principio espresso dalla Corte: “in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità. In tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. in tali sensi: Cass. 16 febbraio 2001 n. 2335; Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991 n. 981). La valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili può sfociare, così, alternativamente, o in giudizio di responsabilità totale per l’autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni sua responsabilità, a seconda che il giudice ritenga essere rimasto operante, nel primo caso (ai sensi del primo comma dell’art. 41 c.p.) oppure essere venuto meno nel secondo caso (ai sensi del secondo comma dell’art, 41 c.p.) il nesso di causalità tra detta causa umana imputabile e l’evento (cfr. in motivazione in tali sensi: Cass. 1 febbraio 1991 n. 981 cit.). In altri termini solo nel caso in cui sia stata accertata l’effettiva operatività del nesso causale tra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, essendo quest’ultimo responsabile per l’intero dei danni cagionati.”
La Corte osserva che il ragionamento trova sicuro fondamento normativo sia nel disposto degli artt. 1227 e 2056 (da cui si evince che in caso di concorso di cause è consentita una riduzione del risarcimento solo in presenza di condotta colposa del creditore) che in quello dell’art. 2055 (da cui si evince che la graduazione e riduzione della responsabilità non è concepibile neppure in presenza di cause umane, azioni od omissioni imputabili a soggetti diversi dal danneggiato e diversi tra loro, stante il principio della responsabilità solidale il quale non opera soltanto in sede di regresso; cfr. così: Cass. 16 febbraio 2001 n.2335 cit.; Cass. 1 febbraio 1991 n. 981 cit.), viene condiviso da autorevole dottrina, la quale precisa che, come per una concausa naturale, anche in presenza del fatto non colposo del danneggiato, prevale l’esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l’impedimento o l’illecito.
Inoltre, è l’art. 2087 ad imporre al datore di tutelare l’integrità psicofisica e morale del lavoratore, indipendentemente dalla circostanza irrilevante di “quanta” integrità iniziale egli disponga: se non si guardasse con favore all’orientamento della Cassazione, si finirebbe per legittimare e mandare esenti a sanzione condotte lesive operate su soggetti non dotati di una condizione iniziale di integrità al 100%, il che sarebbe profondamente ingiusto poiché priverebbe di tutela proprio i soggetti più deboli.
[1] Si rimanda al paragrafo dedicato alle nozioni di infortunio e malattia professionale nel sistema assicurativo obbligatorio
[2] Con sentenza n. 9556 del 13 luglio 2001, la Cassazione ha ritenuto indennizzabile l’infortunio sul lavoro anche nei c.d. casi di “rischio improprio”, quando, cioè, lo stesso non è intrinsecamente connesso allo svolgimento tipico del lavoro del dipendente, ma è insito in un’attività strumentale o prodromica all’esercizio delle mansioni (nel caso di specie, il lavoratore interessato era scivolato sulle scale mentre si recava nella palestra ove prestava servizio come bidello addetto alle pulizie).
[3] in in Lav.e prev oggi, 2000, 1437 – 1440
[4] cfr anche Cass. 2 giugno 1999 n. 5419 : “l’occasione di lavoro prevista dalla legge non implica necessariamente che l’infortunio avvenga durante l’espletamento delle mansioni lavorative tipiche in ragione delle quali è stabilito l’obbligo assicurativo, essendo indennizzabile anche l’infortunio determinatosi nell’espletamento di prestazioni lavorative ad esse connesse, in relazione ad un rischio non proveniente dall’apparato produttivo ma tuttavia insito in un’attività prodromica e comunque strumentale allo svolgimento delle mansioni“.
[5] Questi i passi salienti della sentenza delle S.U.
Prima dell’intervento delle S.U., l’orientamento maggioritario escludeva che i prossimi congiunti della persona offesa dal reato di lesioni personali avessero diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, che peraltro viene riconosciuto nel caso di morte della vittima (Cassazione 1421/98; 11396/97; 11414/92; 6854/88; 1845/76; 1056/73; 1658/72; 2915/71; 2037/00). La risarcibilità viene esclusa in virtù del principio fissato dall’articolo 1223 Cc (applicabile all’illecito extracontrattuale per il richiamo contenuto nell’articolo 2056 Cc), che vuole ricompresi nel risarcimento unicamente i danni che siano conseguenza diretta e immediata del fatto. La lesione fa soffrire immediatamente e direttamente il danneggiato, mentre per i prossimi congiunti i danni morali sarebbero una conseguenza mediata e indiretta e, come tali, non risarcibili. Inoltre, la finalità di prevenzione e repressione costantemente sottesa ai danni non patrimoniali induce a privilegiare un’opzione interpretativa diretta a limitare l’applicazione degli articoli 185 e 2059 CC alle sole persone offese dal reato, anche considerando che, altrimenti, il danno costituirebbe un duplicato di quello già riconosciuto alla vittima primaria dell’illecito. Da questo orientamento si è per prima discostata la sentenza della terza sezione civile 4186/98, ove si rinviene una accurata e puntuale confutazione delle considerazioni tradizionali. La chiave di volta utilizzata per affermare la risarcibilità dei danni morali ai prossimi congiunti del soggetto che ha subito lesioni personali è costituita da una rivisitazione del nesso di causalità ai fini dell’individuazione dei danni risarcibili e dall’inquadramento del danno morale sofferto dai prossimi congiunti del soggetto leso, nel danno riflesso o di rimbalzo.I passaggi logici possono così sintetizzarsi:si afferma che il nesso di causalità fra fatto illecito ed evento può essere anche indiretto e mediato, purché il danno si presenti come un effetto normale, secondo il principio della cosiddetta regolarità causale (precisando che la “cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale”, oltre che una teoria causale è anche una teoria dell’imputazione del danno). Ne risulta insufficiente il riferimento al disposto dell’articolo 1223 Cc per escludere il risarcimento del danno morale in favore dei congiunti del leso, poiché non vi è dubbio che lo stato di sofferenza dei congiunti nel quale consiste il loro danno morale, trova causa efficiente, per quanto mediata, pur sempre nel fatto illecito del terzo nei confronti del soggetto leso.
Il principio applicato è sempre quello della regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto. Così è stato concesso il risarcimento del danno per la lesione del diritto del coniuge ai rapporti sessuali, in conseguenza di un fatto lesivo che abbia colpito l’altro coniuge, cagionandogli l’impossibilità di tali rapporti (Cassazione 6607/86). Inoltre con riguardo a fatto illecito che abbia colpito il congiunto senza causarne la morte, è stata riconosciuta la legittimazione dei prossimi congiunti ad agire nei confronti dell’autore del fatto per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle lesioni patite dal congiunto e ciò con riferimento non solo al danno patrimoniale (danno-conseguenza), ma anche allo stesso danno biologico (danno-evento, rientrante pur sempre nell’ambito dell’articolo 2043 Cc) (Cassazione 8305/96).La conclusione è che se il danno morale dei congiunti della vittima di una lesione può rientrare nell’ambito dei danni riflessi, non vi è un ostacolo alla risarcibilità per effetto della sua intima struttura. A questo punto la sentenza è passata ad esaminare se un ostacolo possa essere costituito dalla struttura e/o dalla funzione della norma che lo prevede e, cioè, dell’articolo 2059 CC e dal combinato disposto di tale articolo e dell’articolo 185 CP,l e prende atto che il recente ed incontrastato orientamento della giurisprudenza penale distingue tra la persona offesa dal reato – che è titolare del bene giuridico tutelato dalla norma – ed il danneggiato civile – che è il soggetto che dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente coincidente con la persona offesa – al quale è riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile. Alla stregua di questa impostazione ed ammessa, quindi, la legittimazione a richiedere il risarcimento del danno patrimoniale ad ogni soggetto che abbia subito un siffatto pregiudizio dal reato, sia esso il soggetto passivo o non lo sia, riconosce detta legittimazione relativamente al danno non patrimoniale nei confronti del soggetto che l’abbia subito (e quindi come tale sia danneggiato), pur senza essere il soggetto passivo del reato.
Infine,qualunque natura si riconosca al risarcimento del danno morale, essa risulta perfettamente compatibile, se non addirittura rafforzativa, con la tesi proposta. Se, infatti, gli si attribuisce natura risarcitoria o satisfattiva dovrà riconoscersi l’equità della corresponsione di un risarcimento ad ogni soggetto danneggiato, in via diretta o riflessa. Se si opta per la funzione punitiva, il risarcimento anche del danno subito dai congiunti, insieme a quello sopportato dalla vittima, non comporta alcuna ingiusta duplicazione della punizione del colpevole, atteso che la “punizione” in questione non è quella penale pubblicistica, ma quella privata accordata al danneggiato civile; pertanto esisteranno tante pene da pagare, quanti sono i danni morali conseguenti al reato. A questo indirizzo innovativo, si sono uniformate tutte le successive pronunce della terza sezione (4852/99; 13358/98; 5913/00; 10291/01).
Chiariti così i termini del contrasto, le sezioni unite hanno ritenuto di comporlo optando per la seconda soluzione, quella della risarcibilità del danno morale patito dai prossimi congiunti del soggetto leso, completata e rafforzata dalle seguenti considerazioni. È innanzi tutto significativo che la giurisprudenza, nell’intento di impostare correttamente il problema, faccia fondamentale riferimento all’articolo 1223 CC, sia per la tesi più restrittiva che per quella estensiva più recente; e, soprattutto, che l’orientamento qui accolto inquadri il danno morale del congiunto nella figura del cosiddetto danno riflesso o di rimbalzo, rientrante nella previsione del suddetto articolo 1223 che, secondo tale costruzione, contemplerebbe tutti i danni conseguenti al fatto illecito secondo un criterio di regolarità causale.
La dottrina ha già chiarito che la questione della causalità di fatto è regolata dagli articoli 40 e 41 e non dall’articolo 1223 Cc, il quale attiene all’oggetto dell’obbligazione risarcitoria sul presupposto di un fatto dannoso completamente definito e, quindi, riguarda il problema della selezione dei danni risarcibili e non quello del nesso causale. In termini di causalità, infatti, il rapporto esistente tra il fatto del terzo ed il danno risentito dai prossimi congiunti della vittima è identico, sia che da tale fatto consegua la morte, sia che da esso derivi una lesione personale. Non vi sono eziologie diverse tra il caso della morte e quello delle semplici lesioni perché in entrambe le ipotesi esiste una vittima primaria, colpita o nel bene della vita o nel bene della salute, e una vittima ulteriore (il congiunto) anch’essa lesa in via diretta ma in un diverso interesse di natura personale.
Appare fuorviante parlare di danno riflesso o di rimbalzo, proprio perché lo stretto congiunto, convivente e/o solidale (per la doverosa assistenza) con la vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di ordine psichico, morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima iure proprio ad agire contro il responsabile dell’evento lesivo” (Cassazione 516/01).
Le S.U. hanno pertanto elaborato il seguente principio di diritto: “ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’articolo 1223 Cc, in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile.
[6] L’art 40 CP rubricato “rapporto di causalità” dispone che nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione. Il secondo comma, che è quello che qui ci interessa, stabilisce che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.
[7] il rigore del principio della equivalenza delle cause dettato dall’art. 40 c.p., in base al quale se la produzione di un evento lesivo è riferibile a più azioni od omissioni deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio della causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 secondo comma, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta solo se questa azione risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto. Il che, secondo la teoria dell’Antolisei di cui si dice poco oltre nel testo, significa che il secondo comma dell’art. 41 deve essere interpretato nel senso che non v’è nesso causale quando l’evento è dovuto a fattori sopravvenuti anormali, rarissimi, eccezionali.
[8] in Corriere Giuridico, 2003, 348, con nota di B. Di Vito; in Danno e responsabilità, 2003, 195 con nota i S. Cacace; in Dir.Pen.Proc., 2003,50, con nota di Di Martino
[9] si tratta di leggi scientifiche che trovano fondamento nella loro controllabilità sperimentale o (più spesso) nella frequenza statistica con cui esse si manifestano nel mondo delle cose
[10] si noti che per giurisprudenza pacifica della S.C. il giudice di merito può fare proprie anche tesi scientifiche minoritarie, non dominanti, purché motivi adeguatamente e risolva le contraddizioni eventualmente presenti nelle fonti cui si ispira
[11] Come uno dei coautori del presente volume osservava in altra pubblicazione, con riferimento a Cass., 12-7-1991, in Foro it., 1992, II, 363; in Giur. it., 1992, II, 414; in Resp. civ. prev., 1992, 36: “La Cassazione, in un caso di omissione di diagnosi e conseguente morte del paziente, ha altresì prospettato un criterio probabilistico matematico, un po’ brutale ma preciso. Secondo la Suprema Corte sussiste sempre il rapporto di causalità tra la condotta colposa ascrivibile al medico ed il pregiudizio risentito dal paziente, anche quando tale nesso sussista “non già con certezza o elevate probabilità, ma solo con probabilità apprezzabili nella misura del trenta per cento”. In base a tale impostazione quindi, gli eventi di probabilità inferiore al 30% non sarebbero riconducibili, di massima, alla condotta colposa ascrivibile al sanitario. Si tratta evidentemente di un criterio da intendersi con buon senso, ma destinato anche ad incidere notevolmente nella valutazione delle consulenze tecniche, atteso che numerosi testi di medicina riportano spesso le percentuali di occorrenza di determinati eventi in relazione a fattori patogeni, o a sintomi rilevabili nella diagnosi.”,. Monateri-Bona-Castelnuovo nel Paragrafo “nesso di causa”, capitolo “responsabilità medico-sanitaria” nel trattato “Il danno alla persona”, Torino, 2000, a cura di P.G.Monateri
[12] cfr Cass 27 giugno 1998 n. 6390, “il nesso de quo può provarsi a mezzo di presunzioni semplici” e che “nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità”.
[13] Cfr. ex plurimis Cass., sez. Lav., 28 settembre 1998, n. 9679 ; Cass., 23 aprile 1994, n. 3916, in Dir. Prat. Lav., 1994, 36, 2487. Nel caso di malattie tabellate spetta quindi all’INAIL la prova che la malattia contratta non possa in concreto avere origine professionale, senza che peraltro sia altresì necessario che l’istituto in questione dimostri nello specifico quale sia la diversa origine dell’evento morboso. La Suprema corte ha comunque affermato che la presunzione legale dell’origine professionale delle malattie tabellate non opera anche per le malattie aventi carattere comune e specie ad eziologia multifattoriale, essendo in questi casi richiesto al lavoratore di dimostrare probabilità qualificate o di elevata probabilità scientifica: Cass., sez. lav., 29 settembre 2000, n. 12909; Cass., sez. lav., 5 ottobre 1998, n. 9886.
[14] Cass 29 dicembre 1998 n.12863
[15] cfr. Cass. 18 febbraio 2000 n. 1886, in Notiz. Giur. Lav., 2000; Cass. 29 dicembre 1998 n. 12863, in Mass. Giur. It., 1998; 1998; Cass. 21 ottobre 1997 n. 10361, in Mass. Giur. It., 1997.
[16] Cass 27 giugno 1998, n. 6388
[17] Cassazione, 6 febbraio 2001-30 marzo 2000
[18] cfr ex multis, da ultimo Cass. 8 aprile 2002 n. 5024: “il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell’infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l’incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente – in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto che ne faccia le veci) – finisca per configurarsi nell’eziologia dell’evento dannoso come una mera modalità dell’iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso.
[19] Cass. 17 febbraio 1999 n. 1331: “poichè gli obblighi che l’art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro in tema di tutela delle condizioni di lavoro si estendono, nella fase dinamica dell’espletamento della prestazione, ai comportamenti necessari per prevenire possibili incidenti, per cui non e’ sufficiente il semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso causale, tuttavia l’imprenditore e’ esonerato da responsabilita’ quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’esorbitanza, atipicita’ ed eccezionalita’ rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi’ da porsi come causa esclusiva dell’evento. (Nella specie e’ stata cassata la sentenza di merito che non aveva motivato sull’incidenza, nella causazione dell’infortunio, del comportamento del lavoratore addetto al carico e scarico dei materiali ed alla manutenzione dei mezzi di trasporto, il quale, nel tentativo di rimuovere un cavo elettrico rimasto incagliato nello stabilizzatore del camion, aveva inserito la mano”.
[20] È il caso di Cass. 16 giugno 1998 n. 6000, secondo la quale “e` configurabile la responsabilita` del datore di lavoro per l’infortunio subito da un dipendente nell’esercizio dell’attivita` lavorativa, anche a fronte di una condotta imprudente di quest’ultimo, se tale condotta e` stata determinata, o quanto meno agevolata, da un assetto organizzativo del lavoro non rispettoso delle norme antinfortunistiche, conosciuto o colpevolmente ignorato dal datore di lavoro che nulla ha fatto per impedirlo. (Nella specie, la sentenza impugnata aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta da dipendente relativamente ad infortunio provocato dalle ruote dentate di una macchina a cui era addetto, con la motivazione che l’infortunio era stato causato da un comportamento imprevedibile del lavoratore, che si era introdotto tra la macchina e il muro adiacente per raccogliere del materiale; la S.C. ha annullato la stessa per violazione dell’art. 2087 cod. civ. e dell’art. 59 del d.P.R. n. 457 del 1955 sulle protezioni rispetto ad ingranaggi ed elementi dentati, nonche` per vizio di motivazione).
Cfr anche Cass 17 febbraio 1998 n.1687: “il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore non solo quando ometta di adottare le idonee misure protettive, ma anche quanto ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non assumendo alcun valore esimente per l’imprenditore l’eventuale concorso di colpa del lavoratore e potendo configurarsi un esonero da responsabilità per il datore di lavoro solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e della assoluta inopinabilità, da valutarsi anche in relazione al livello di esperienza dello stesso dipendente; sotto tale ultimo profilo, il suddetto dovere di vigilanza gravante sul datore di lavoro assume più intense connotazioni allorché il destinatario sia un lavoratore assunto con contratto di formazione e lavoro, atteso che tale contratto, si caratterizza per una funzione sociale attribuita al datore di lavoro, rispetto al quale si realizza una sorta di affidamento del giovane esordiente nel mondo del lavoro. (Nella specie un giovane assunto con contratto di formazione e lavoro, dopo tre giorni dall’assunzione si era infortunato alla mano manovrando una saldatrice; la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso ogni responsabilità del datore di lavoro).
V. poi Cass 15 aprile 1996 n.3510: “la responsabilità civile dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure di sicurezza generiche e specifiche che, in relazione alla concreta pericolosità del lavoro, siano idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, è esclusa solo in caso di dolo di quest’ultimo o nel caso di rischio elettivo, generato da un’attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante i limiti di esso; ne consegue che l’eventuale colpa del lavoratore, dovuta ad imprudenza, negligenza o imperizia, non elimina quella del datore di lavoro sul quale incombe l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso di causalità”.
[21] Secondo Cass. 30 dicembre 1999 n. 14756, ai fini di una esatta graduazione delle responsabilita’ tra datore di lavoro e lavoratore nella causazione dell’evento lesivo, il giudice di merito non puo’ non valutare anche partitamente l’avvenuto rispetto, da parte del datore di lavoro, delle specifiche norme antinfortunistiche regolanti la singola fattispecie, espressamente richiamate dalla difesa del lavoratore nel corso del giudizio. (Nella specie un lavoratore, mentre lavorava in un cantiere edile, era stato colpito da una trave di ferro caduta dall’alto, riportando gravi lesioni; nell’impugnata sentenza – cassata sul punto dalla S.C.- si era sempre posto l’accento sulla omessa predisposizione da parte del datore di lavoro delle cautele necessarie ad impedire l’evento, ma la caduta della trave era stata considerata pacificamente quale evento accidentale, senza esaminare se si fosse verificata la mancata osservanza da parte del datore di lavoro delle norme di cui agli artt. 4, 11, 374 e 377 del d.P.R. n. 547 del 1955 espressamente contestata in giudizio).
V. anche Cass. 9 settembre 1991 n. 9459: “In tema di responsabilita’ per infortunio sul lavoro, stante l’obbligo del datore di lavoro o del preposto di controllare che siano osservate le misure di sicurezza previste dalla normativa antinfortunistica (art. 4, lettera c) del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547) e concretandosi quest’obbligo non gia’ nella verifica una tantum della presenza ed efficienza del dispositivo di cui trattasi, bensi’ in una vigilanza che, pur senza essere ininterrotta, risulti nondimeno idonea ad assicurare, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 2087 cod. civ. e dell’operativita’ delle regole di comune prudenza e diligenza, l’impiego da parte dei dipendenti degli strumenti protettivi in dotazione alle macchine, non esclude la suddetta responsabilita’ la circostanza dell’avvenuta rimozione, ad opera di ignoti, di detti strumenti durante una pausa dell’attivita’ lavorativa, ne’ configura rischio elettivo il comportamento del lavoratore il quale pur essendosi avveduto di tale rimozione, abbia tuttavia fatto uso della macchina, qualora si accerti che il datore di lavoro abbia omesso una tale vigilanza, potendo il comportamento negligente o imprudente del lavoratore, assumere soltanto efficacia di concausa o di mera occasione o di modalita’ dell’”iter” produttivo dell’evento infortunistico e non gia’ di causa di esclusione della responsabilita’ del datore di lavoro, in sede di azione di rivalsa dell’INAIL ex artt. 10 e 11 del D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124.”
[22] Cfr in questo senso Cass. 2 ottobre 1998 n. 9805, sull’infortunio occorso ad un apprendista addetto da pochissimi giorni ad una macchina con lama rotante.
[23] ex plurimis, sezione quarta, 7 gennaio 1983, Melis, rv. 158947; 2 aprile 1987, Ziliotto, rv. 176402; 7 marzo 1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23 gennaio 1990, Pisolini, rv. 184561; 13 giugno 1990, D’Erme, rv. 185106; 18 ottobre 1990, Oria, rv. 185858; 12 luglio 1991, Silvestri, rv. 188921; 23 marzo 1993, De Donato, rv. 195169; 30 aprile 1993, De Giovanni, rv. 195482; 11 novembre 1994, Presta, rv. 201554
[24] sezione quarta, 28 settembre 2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29 settembre 2000, Musto; 25 settembre 2001, Covili, rv. 220953; 25 settembre 2001, Sgarbi, rv. 220982; 28 novembre 2000, Di Cintio, rv. 218727
[25] Ecco, ciò esposto, come la Corte perviene a tale soluzione.
Ritiene il collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri. …. Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 c.p. sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla “teoria condizionalistica” o della “equivalenza delle cause” (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla “causalità umana” quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2). È dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal c.p. si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva, che si pone come condizione “necessaria” – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato.
La verifica della causalità postula il ricorso al “giudizio controfattuale”, articolato sul condizionale congiuntivo “se allora” (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale “doppia formula”, nel senso che: a) la condotta umana “è” condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana “non è” condizione necessaria dell’evento se eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato.
Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (sezione quarta, 24 giugno 1986, Ponte, rv. 174511-512; 6 dicembre 1990, Sonetti, rv. 191788; 31 ottobre 1991, Rezza, rv. 191810; 27 maggio 1993, Rech, rc. 196425; 26 gennaio 1998, Pg in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, “già da prima”, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.
E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ridescritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto “leggi scientifiche” esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – “legge di copertura” -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi “del tipo” di quello verificatosi in concerto.
Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi universali (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi statistiche che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di alto grado di credibilità razionale o probabilità logica, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili.
Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di assunzioni tacite e presuppone come presenti determinate condizioni iniziali, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali ceteris paribus, mantiene validità l’impiego della legge stessa.
La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (sezione fer. 1 settembre 1998, Casaccio, rv. 211526; sezione quarta, 28 settembre 2000, Baltrocchi, citata; 29 settembre 2000, Musto, citata; 25 settembre 2001, Covili, citata; 25 settembre 2001, Sgarbi, citata; 20 novembre 2001, Turco; 28 novembre 2000, Di Cintio, citata; 8 gennaio 2002, Trunfio; 23 gennaio 2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dell’altro, nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale.
In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisicità contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (vedi lo schema Magliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del c.p., sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo.
Il ricorso a generalizzazione scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessivi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici. E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (conditio sine qua non) e dei paesi anglosassoni (causa but for) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittivi dell’imputazione causale.
E’ da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di omissione, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento. Il “reato omissivo improprio” o “commissivo mediante omissione”, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dell’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, c.p. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomie che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa.
Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.
Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamene motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della “impugnazione oggettiva dell’evento”. Questa è caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera “possibilità” o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di aumento – o mancata diminuzione – del rischio di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato,ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa – che le sezioni unite condividono -, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (sezione fer. Casaccio, sezione quarta, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Tronfio, Orlando), delle malattie professionali (sezione quarta, Covili) e degli infortuni sul lavoro (sezione quarta, Sgarbi), convenendo che anche per i reti omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento.
Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del condizionale controfattuale, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo coperto dal sapere scientifico del tempo.
Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di certezza meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento forse, non certamente, cagionato dal suo comportamento.
Superato quell’orientamento che si sostanzia in pratica nella volatilizzazione del nesso eziologico, il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica, quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all’efficacia impeditivi e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo.
Non è messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità bensì la sua concreta verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della “elevata o alta credibilità razionale” del condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima legge di copertura.
Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico. Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a serie ed apprezzabili probabilità di successo (anche se limitate e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull’assunto che “quanto è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’intervento del medico”.
Le sezioni unite non condividono questa soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, orami ventennale e prevalente orientamento della sezione quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da sezione quarta, 7 gennaio 1983, Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pisolini, D’Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché, com’è stato sottolineato dall’opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (sezione fer, Casaccio; sezione quarta, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Tronfio, Orlando), con la tralaticia formula delle “serie ed apprezzabili probabilità di successo” dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di probabilità indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinti, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica. Né va sottaciuto che dall’esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell’evento, non si è tuttavia in presenza di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell’evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell’indagine controfattuale sull’evitabilità dell’evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell’inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di colpa del garante, rispetto all’ambito – invero prioritario – della spiegazione e dell’imputazione causale.
È stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria della tipicità dell’elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell’istituto, oggetto della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa. Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle sezioni unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione debole della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale, dell’aumento del rischio, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.
Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di causazione multipla legati al moderno sviluppo delle attività. Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativi dell’abduzione), rispetto ai quali i dati formativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento deduttivo, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse.
D’altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di assunzioni tacite, presupponendo come presenti determinate condizioni iniziali e di contorno, spazialmente contigue e temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, “ceteris paribus“, mantiene validità l’impiego della legge stessa. E, poiché, il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari.
Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente è condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di certezza processuale, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da alto grado di credibilità razionale o conferma dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di “elevata probabilità logica” o “probabilità prossima alla – confinante con la certezza”.
Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1, cioè alla certezza”, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento. Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità.
È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenza tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’attendibilità in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.
In definitiva, con il termine “alta o elevata credibilità razionale” dell’accertamento giudiziale, non s’intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione, indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità.
Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le sezioni unite ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di certezza processuale che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva.
D’altra parte, poiché la condizione necessaria si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costituitivi del fatto di reato. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è giù racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546, comma 1, lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittivi dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un “alto grado di credibilità razionale”, quindi alla certezza processuale, che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio. Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia “in dubio pro reo“. E non ,viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale vita, finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di necessità graduabile in coefficienti numerici.