LA CLAUSOLA GENERALE DI TUTELA DEL LAVORATORE: L’ART. 2087 CC


LA CLAUSOLA GENERALE DI TUTELA DEL LAVORATORE

L’ART. 2087 CC

 

Sommario: 3.1. Generalità 3.2. I diritti tutelati: la salute e la personalità morale 3.3. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in concorso 3.4. La responsabilità è colposa 3.5. L’ampio contenuto dell’obbligo di tutela 3.6. Integrazioni contenutistiche: le leggi di prevenzione e i contratti collettivi. Cenni.

 

 

 

3.1. Generalità

 

L’integrità psicofisica e morale del lavoratore è riconosciuta come diritto inviolabile dalla Carta Costituzionale: in tal senso depongono l’art. 32 (il bene della salute costituisce oggetto di autonomo diritto primario assoluto all’integrità psicofisica incidente sulla attitudine a produrre ricchezza e sulle funzioni naturali del soggetto aventi rilevanza economica, biologica e sociale); l’art. 2 (che tutela l’individuo nelle formazioni sociali e, quindi, il lavoratore sul luogo di lavoro); l’art. 41 che individua quale limite all’iniziativa economica il divieto di recare danno alla dignità umana (la violazione della quale, nel rapporto lavorativo, comporta l’obbligo per il datore di lavoro di risarcire il danno).

L’art 2087 CC, Tutela delle condizioni di lavoro, dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La norma costituisce una disposizione inderogabile di legge integrativa del contratto di lavoro stipulato tra le parti (ai sensi dell’art. 1374 CC) e, nell’imporre doveri di tutela a carico del datore, ne sancisce la responsabilità per il caso di violazione.

Quale sia il rimedio all’inadempimento di tali doveri da parte del datore è la disciplina comune dettata dal Codice Civile per l’inadempimento delle obbligazioni agli artt. 1218 ss: il debitore che non esegue esattamente la prestazione cui è tenuto deve risarcire il danno patrimoniale che secondo l’art. 1223 comprende tanto il danno emergente quanto il lucro cessante. Si badi che, nel caso che ci occupa, la particolare formulazione del 2087 fa si che venga ad assumere una sua eccezionale autonoma dignità risarcitoria in campo contrattuale anche il danno non patrimoniale, sia esso biologico, morale od esistenziale.

In applicazione dell’art. 1225, caratteristica della responsabilità contrattuale, che per effetto del disposto dell’art. 2056 che non richiama il 1225 si differenzia da quella extracontrattuale, è che il risarcimento è limitato al danno prevedibile (salvo che l’inadempimento dipenda da dolo)[1].

E’ poi l’art 1226 ad attribuire al giudice il potere di liquidare il danno in via equitativa laddove esso sia provato nell’an ma non nel preciso quantum: è appena il caso di ricordare che la determinazione equitativa è tipica nel settore dei danni non patrimoniali[2].

L’art. 1227 – il cui corrispondente in campo aquiliano è il 2055 – costituisce il criterio di imputazione del danno nei casi di concorso di colpa del danneggiato nella determinazione dell’evento dannoso: ai fini della liquidazione del risarcimento la condotta del danneggiato può venire in considerazione sia in relazione all’applicabilità del primo comma dell’articolo 1227 che dà rilevo alla partecipazione del danneggiato nella produzione del danno, sia in relazione al secondo comma che invece sancisce il dovere di correttezza del danneggiato consistente nell’attivarsi per limitare gli effetti dannosi prodotti dal danneggiante. Su tale premessa la dottrina e la giurisprudenza di legittimità ritengono che l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento debba, quindi, distinguersi da quella riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza avere contribuito però alla sua causazione: sul piano processuale solo la seconda fattispecie configura un possibile oggetto di una eccezione in senso proprio, ai sensi e per l’effetto di cui all’articolo 112 CPC, mentre ove il convenuto si sia limitato a contestare in toto la propria responsabilità il giudice deve proporsi di ufficio l’indagine sul concorso di colpa del danneggiato[3].

L’art 1228, infine, stabilisce che si risponda per il fatto colposo del terzo di cui ci si avvalga per adempiere all’obbligazione: la norma, come quella speculare del, presupponendo che l’opera svolta dal terzo sia connessa con l’adempimento della prestazione[4], in buona sostanza recepisce il principio della responsabilità indiretta espressa in campo extracontrattuale dall’art. 2049.

 

3.2. I diritti tutelati: la salute e la personalità morale

 

Benché in ambito giuslavoristico la tutela dell’integrità psico-fisica e della personalità morale della persona sia dato normativo inserito nell’art 2087 CC, anche in questo settore del diritto l’evoluzione è stata lenta e, anziché fungere (come ben avrebbe potuto) da elemento di traino, ha beneficiato dei passi con cui dottrina e giurisprudenza – muovendosi in altre branche, in particolare quella della RC aquiliana – hanno condotto il nostro sistema della responsabilità civile ad assumere le sembianze odierne.

Per ottenere diritto di cittadinanza nel nostro settore, il danno biologico ha dovuto attendere il 1991, quando (come vedremo ampiamente in seguito) la Corte Costituzionale reinterpretò tutto il sistema dell’esonero da responsabilità civile di cui gode il datore per il semplice fatto di esser assicurato obbligatoriamente presso l’INAIL.

Ma ciò avvenne non per effetto dell’art. 2087 (che ben avrebbe potuto esser letto in guisa da imporre di per se il risarcimento del danno biologico), bensì per la invincibile vis extensiva che in tutti i settori del diritto aveva avuto l’intervento risolutore con cui la stessa Consulta nel 1986 [5] aveva  sancito la dignità di diritto vivente del danno biologico, ontologicamente necessitato dall’entrata in vigore della Costituzione il cui art. 32 tutela la salute sotto ogni angolazione.

Come noto, la sentenza 184 del 1986 era giunta ad affermare che “il collegamento tra l’art. 32 della Costituzione e l’art. 2043 CC, imponendo una lettura “costituzionale” di quest’ultimo, consente d’interpretarlo come comprendente il risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: è la lettura “costituzionale” dello stesso articolo, correlato con l’art. 32 della Costituzione, che soddisfa le esigenze sottostanti a tutte le tesi proposte in materia”.

La Corte stabilì – e fino ad oggi nessuno poteva dubitarne senza fare i conti con l’autorevolezza dell’arresto [6] – che l’art. 2059 CC attiene esclusivamente ai danni morali subiettivi mentre la risarcibilità del danno biologico deriva dalla lettura costituzionalizzata dell’art. 2043 CC da porsi in relazione con l’art. 32 Cost.: l’ordinamento non può non concedere la minima delle tutele (quella risarcitoria) quando il danno sia ingiusto perché sia stato leso un bene costituzionalmente protetto come quello dell’integrità fisica-psichica.

Dunque la costruzione dogmatica del danno biologico trova il suo fondamento in una lettura del sistema della RC extracontrattuale, così come nell’ambito aquiliano si sono sviluppate le tematiche che partendo dalla critica all’art 2059 sono approdate alla creazione del danno esistenziale.

Ottenuta la cittadinanza nell’ordinamento, il danno biologico ha dovuto attendere che la Corte Costituzionale si pronunciasse tre volte nel 1991 per entrare a pieno diritto quale autonoma e specifica voce risarcitoria nel campo della responsabilità datoriale, risolvendo la c.d. questione INAIL (di cui trattiamo in altro paragrafo), ossia il problema delle interazioni tra il tort system che si fonda sulle norme di RC contrattuale ed extracontrattuale di diritto comune ed il social security system che per mezzo dell’assicurazione obbligatoria INAIL garantisce i lavoratori in caso di infortunio o malattia professionale.

In buona sostanza si trattava di conciliare l’esonero da responsabilità di cui godeva il datore (ex art 10 del T.U.) per il semplice fatto di essere assicurato, con le norme di cui agli artt. 2043 e 2087 CC e soprattutto con la nuova categoria del danno biologico la cui tutela trova fondamento nella Costituzione e che per questo non può incontrare limiti; si trattava poi di stabilire i rapporti di convivenza tra un sistema d’assicurazione obbligatoria che solo di danno patrimoniale (e neppure tutto, a ben vedere) si occupava, con un sistema di RC che invece tende a garantire il ristoro di ogni pregiudizio, anche di carattere non patrimoniale.

Al di la dei problemi connessi con la questione INAIL e con quella dell’esonero, certo è che la presenza di una norma come l’art. 2087 avrebbe consentito di risparmiare molti degli sforzi con cui si è giunti in campo extracontrattuale al risultato “rivoluzionario” di costruire il danno biologico (che è certamente danno non patrimoniale, essendo sganciato dalla capacità di produrre reddito) quale tertium genus autonomo rispetto al danno patrimoniale ed indipendente dalla sussistenza di una fattispecie di reato e quindi al di fuori della strozzatura dell’art 2059 CC, e molti degli sforzi con cui oggi la dottrina più avveduta e la migliore giurisprudenza hanno dato vita autonoma alla categoria del danno esistenziale.

Il 2087 impone infatti ex contractu al datore di tutelare la sfera fisica e la personalità morale del lavoratore: se la sanzione minima in ogni caso di violazione di un dovere di tutela è quella del risarcimento, non v’è chi non veda come qui si tratti del dovere di tenere indenne il lavoratore delle conseguenze pregiudizievoli costituenti un danno che è certamente anche non patrimoniale.

Utilizziamo l’espressione onnicomprensiva di “danno non patrimoniale” poiché ci pare la più adatta a ricomprendere ogni voce che si caratterizzi per una certa autonomia rispetto alla sfera patrimoniale del soggetto (con particolare riferimento alla idoneità a produrre reddito): il danno biologico in se e per se, le sue componenti eventuali del danno estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale, alla capacità lavorativa generica (che nel biologico, laddove esistenti, restano assorbite concorrendo a farne variare la consistenza e quindi a “personalizzarlo”), il danno morale nell’accezione tradizionale di danno morale subiettivo (la pecunia doloris che indennizza la sofferenza patita dalla vittima del reato), il danno morale costituzionalizzato che comprende in se anche il danno esistenziale e che necessariamente deve essere risarcito – al di là di ogni restrizione – in caso di lesione di diritti ed interessi costituzionalmente protetti.

Orbene, se nel campo della RC extracontrattuale per giungere al pieno ristoro dei danni non patrimoniali si è dovuto fare i conti con la formulazione infelice del 2059 [7] ed utilizzare quella “in bianco” del 2043 [8] (che ha consentito di far passare per quella strada, la strada del “danno ingiusto”, il danno biologico e quello esistenziale), il 2087 è norma di imputazione contrattuale che semplifica di gran lunga le cose perché consente di giungere al medesimo risultato essendo sufficiente a se stessa.

Molte delle spigolosità che reca con se la struttura del criterio di imputazione della responsabilità aquiliana (l’art. 2043) così come costruito dalla Consulta con la sentenza 184, sarebbero smussate da un maggior utilizzo dell’art 2087 CC sfruttandone a fondo tutte le potenzialità.

Se l’art 2087 tutela la personalità morale del lavoratore, la lesione di tale bene può comportare oltre che un danno patrimoniale e un danno biologico (per esempio, danno biologico psichico), anche e soprattutto un danno morale o esistenziale [9].

Se così è, ci parrebbe preferibile configurare tale danno non patrimoniale quale in se della lesione al bene “personalità morale” tutelato dalla norma, quale danno-evento senza il quale il fatto illecito che cagiona (rectius, l’inadempimento contrattuale che comporta) “violazione della personalità morale” non sussiste, quale elemento la cui esistenza rende anti-giuridica la condotta.

Percorrendo una via diversa, che poco ci convince perché impone di “parlar d’altro”, si potrebbe dire che il 2087 è uno di quei casi in cui a norma del 2059 diventa risarcibile il danno non patrimoniale, e ciò indipendentemente dalla sussistenza del fatto di reato. Su questa falsariga una risalente pronuncia del Pretore di Milano [10] ha affermato che tra i casi previsti dall’art. 2059 c.c. per il risarcimento del danno non patrimoniale rientra anche l’art. 2087 c.c.: “il demansionamento realizza un’offesa contestuale alla personalità morale del lavoratore in termini di sofferenza e mortificazione, la cui risarcibilità in base alla disciplina degli artt. 1218 e ss. c.c. va affermata stante la chiara e precisa disposizone di cui all’art. 2087 c.c. Se così non fosse, quest’ultima norma potrebbe non essere stata scritta; infatti, una norma del genere o è sanzionata o e tamquam non esset”.

D’altronde scorrendo i repertori di giurisprudenza, quando sia stato liquidato un danno non patrimoniale diverso da quello biologico, si rileva come ciò sia avvenuto in applicazione dell’art 2059 sic et simpliciter, anche perché spesso il fatto del datore che cagiona danno non patrimoniale al lavoratore è anche configurabile come reato (tipicamente, quello di lesioni colpose). Si veda da ultimo in Cass. 22 marzo 2002 n. 4129: “Nel danno sopportato dal lavoratore in conseguenza della mancata osservanza da parte del datore di lavoro (o del soggetto comunque tenuto a garantirne la tutela) degli obblighi di sicurezza impostogli dall’art. 2087 cod. civ., rientra anche il danno morale quante volte da quell’inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta del datore anche un rilievo penale che giustifica l’attribuzione del risarcimento ex art. 2059 CC”.

Ma laddove reato non vi sia, ci sembra una forzatura voler far passare il risarcimento del danno non patrimoniale – anziché per la via breve del 2087, quale rimedio tipico di matrice contrattuale per la lesione della personalità morale [11] – per la via del 2059 (pur nell’attuale versione “costituzionalmente orientata, di cui si dirà) o per la via [12] del danno esistenziale.

 

3.3. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in concorso

 

La commistione, nell’esperienza giurisprudenziale, tra elementi caratteristici della responsabilità contrattuale ed aquiliana si giustifica con la constatazione che è pacificamente ammissibile – secondo l’orientamento consolidato delle corti di merito avvallato dalla giurisprudenza di legittimità [13] – che a fronte di un medesimo fatto che integri contemporaneamente la violazione di diritti soggettivi primari spettanti alla persona offesa indipendentemente dalla stipulazione di un contratto e la violazione di diritti derivanti a una delle parti da un contratto validamente concluso, si configuri in pari tempo l’esistenza della responsabilità extracontrattuale e di quella contrattuale. In tali casi suole dirsi che il debitore, autore del danno ingiusto, risponde “a doppio titolo”, ossia per violazione del preesistente vincolo obbligatorio (nel caso del contratto di lavoro, per violazione degli obblighi di sicurezza posti a carico del datore dall’art. 2087) ed, insieme, per inosservanza del generale precetto del neminem laedere canonizzato nell’art. 2043.

La duplicità del titolo risarcitorio comporta un distinto regime per ciascuna delle due azioni per quanto riguarda la distribuzione dell’onere della prova (gravando sul datore di lavoro la dimostrazione, quando sia dedotta la violazione dei suddetti obblighi contrattuali, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno); ma ciò non incide sull’elemento costitutivo della fattispecie di illecito, rappresentato in entrambi i casi dal requisito soggettivo del dolo o della colpa che caratterizza la condotta antigiuridica, dovendosi comunque escludere la configurabilità di una responsabilità risarcitoria dell’imprenditore, in base ad un criterio puramente oggettivo di imputazione, per l’evento collegato al rischio dell’attività svolta nel suo interesse.

Stante la concorrenza dell’azione aquiliana con quella contrattuale, il danneggiato può avvalersi, alternativamente, dell’una o dell’altra [14]: la scelta del criterio di imputazione del danno non è immune da conseguenze, posto che la responsabilità contrattuale si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 e limita il risarcimento ai danni prevedibili al momento della nascita dell’obbligazione, mentre quella extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva  [15].

Altra rilevante differenza è data dal termine prescrizionale che nel caso della responsabilità extracontrattuale è quinquennale ai sensi dell’art 2947 CC (salva la possibilità di estensione del termine a quello eventualmente più lungo previsto per la fattispecie di reato che il fatto può integrare), mente nel caso contrattuale è decennale secondo l’art 2946 [16].

 

3.4. La responsabilità è colposa

 

La giurisprudenza è costante nel ritenere che la norma di imputazione prevista dal 2087 non configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva [17], essendo necessario che l’evento dannoso occorso al lavoratore sia ricollegabile ad un comportamento colposo del datore, che si invochi la responsabilità contrattuale o quella extracontrattuale: “il requisito soggettivo della colpa o del dolo rappresenta in entrambi i casi un elemento costitutivo della fattispecie di illecito, dovendo comunque escludersi la configurabilità di una responsabilità risarcitoria in base ad un criterio puramente oggettivo per l’evento collegato al rischio dell’attività svolta nell’interesse del datore di lavoro[18].

Trattandosi di responsabilità colposa diventa necessario accertare che il datore, con un giudizio di prognosi postuma, fosse in grado di rappresentarsi l’evento dannoso al quale ha dato causa vuoi per colpa specifica (non avendo osservato “leggi o discipline” tra le quali certamente v’è l’art. 2087 [19]) vuoi per colpa generica (avendo posto in essere condotte od omissioni connotate da imperizia, imprudenza o negligenza) vuoi per dolo (essendosi rappresentato l’evento ed avendolo anche voluto nel caso di dolo diretto, oppure avendo accettato il rischio che il danno si verificasse nel caso del dolo eventuale).

Possiamo dire che in linea di massima il difetto di rappresentazione ex ante dell’evento dannoso da parte del datore lo assolve da responsabilità [20], purché naturalmente egli sia in grado di dimostrare di aver assolto a tutti gli obblighi di predisporre misure tecniche idonee ad evitare il danno.

Si badi tuttavia che il semplice rispetto della legislazione tipica della prevenzione non è sufficiente ad esimere da colpa il datore quando, pur avendo la concreta possibilità, non solo economica, di eliminare o ridurre gli agenti nocivi, sia rimasti inerti o si sia limitato ad adottare le semplici misure soggettive di prevenzione [21]. E’ infatti principio giurisprudenziale pacifico [22] che il datore deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza, sicché non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. Non solo, ma l’obbligo sancito dal 2087 di aggiornarsi sulle tecniche di prevenzione non tollera la scusante della mancata informazione al riguardo da parte di organi ispettivi o di controllo, o  nel fatto che questi non abbiano mai formulato osservazioni [23].

Sul versante dell’onere probatorio, incombe sul lavoratore il quale lamenti di aver subito un danno a causa dell’attività lavorativa svolta l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro nonchè il nesso di causa tra l’uno e l’altra. Solo quando il danneggiato avrà dimostrato l’omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno, incomberà sul datore l’onere di dare prova liberatoria, ossia di aver adottato tutte le cautele possibili [24].  Così si esprime la giurisprudenza: “qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa - che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.) sicché grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione in argomento, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa”.

 

3.5. L’ampio contenuto dell’obbligo di tutela

 

Vediamo ora quale sia il contenuto dell’obbligo di tutela sancito dal 2087.

La giurisprudenza definisce il 2087 come “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione [25]. L’art. 2087 impone al datore di andare al di là della mera applicazione delle misure previste dalle leggi anti-infortunistiche [26] – rispetto alle quali assume tanto funzione di individuare il rimedio risarcitorio, quanto carattere sussidiario di integrazione – ed implica tanto il dovere di astenersi da comportamenti lesivi nei confronti del lavoratore[27], quanto il dovere di adottare tutte le misure tecnologicamente possibili in materia di sicurezza ed igiene sul posto di lavoro aggiornandole al passo con lo sviluppo della scienza al fine di preservare l’integrità psicofisica e la dignità morale dei lavoratori nell’ambiente di lavoro [28].

Funzione della norma, stante la sua formulazione ampia ed aperta alle integrazioni contenutistiche della tecnica e della scienza, è altresì quella di stimolare i datori di lavoro ad uniformarsi al progresso tecnologico e di farlo con tale diligenza da precorrere i tempi spesso ritardati con cui le disposizioni anti-infortunistiche di dettaglio andranno ad acquisire le innovazioni della tecnica e del know-how.

Come si diceva, la norma configura a carico del datore di lavoro una responsabilità contrattuale per la lesione (anche) di diritti personalissimi di tipo non patrimoniale conseguente all’esercizio illecito o illegittimo dei poteri connessi all’iniziativa economica, impone al datore un “dovere di sicurezza” cui corrisponde un “diritto alla sicurezza” in capo ai lavoratori, e configura una fattispecie di obbligo assimilata alle obbligazioni di risultato.

Si tratta di un binomio dovere-diritto la cui operatività deve circoscriversi nell’ambito del perimetro delimitato dalle prestazioni oggetto del contratto di lavoro: come anche di recente ha ricordato la S.C., “ancorché il datore di lavoro sia responsabile ex art. 2087 cod. civ. dell’infortunio occorso al lavoratore nel luogo ed in costanza di lavoro non solo quando ometta di adottare le idonee misure protettive ma anche quando ometta esclusivamente di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non sussiste alcuna responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui l’infortunio sia provocato da un comportamento del dipendente del tutto imprevedibile ed estraneo alla stessa prestazione lavorativa [29], non sussistendo un obbligo generale del datore di lavoro di sorveglianza dei dipendenti affinché non compiano atti inconsulti potenzialmente lesivi della propria e dell’altrui incolumità[30].

Il principio è quello per cui solo il rischio elettivo, ossia quello generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso, non può essere mai imputato al datore.

Ciò è da leggersi anche alla luce del correlato orientamento della Corte per cui la responsabilità datoriale persiste anche a fronte di una condotta imprudente del dipendente, laddove tale condotta sia stata determinata o agevolata da una organizzazione aziendale non rispettosa delle norme antinfortunistiche. Ed infatti la doppia responsabilità (contrattuale e aquiliana) che grava sul datore di lavoro implica una doverosa attività di controllo costante, volta ad impedire comportamenti dei lavoratori tali da rendere inutili o insufficienti le apprestate cautele tecniche [31]: il datore di lavoro non solo deve approntare le misure antinfortunistiche, ma ha altresì l’obbligo di vigilare, affinchè tali misure siano attuate ed i lavoratori si avvalgano dei dispositivi di protezione messi loro a disposizione.

Ancora, la delimitazione della responsabilità datoriale all’ambito del rapporto di lavoro va letta tenendo presente che i suoi confini possono allargarsi al di là dell’obbligo di adottare le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, perché essa ricomprende anche il dovere di preservare l’integrità dei lavoratori da eventi non direttamente riconducibili alle obbligazioni dedotte nel rapporto ma che, verificandosi in costanza di lavoro, in esso trovino occasio tale da rivelarsi eziologicamente essenziale nel prodursi del danno: è il caso delle aggressioni conseguenti all’attività criminosa da parte di terzi i cui effetti dannosi, secondo un orientamento invero non costante della Cassazione [32], possono esser addebitate al datore.

Sulla base dell’ampio raggio di protezione offerto dal 2087, la Corte Costituzionale [33] ha rigettato la questione di legittimità rimessale dal Tribunale di Torino avente ad oggetto la mancata espressa previsione del divieto di fumare sul luogo di lavoro da parte di varie norme prevenzionistiche tra le quali la 626. La Corte ha osservato che pur non essendo ravvisabile nel diritto positivo un divieto assoluto e generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, è anche vero che nell’ordinamento già esistono disposizioni intese a proteggere la salute dei lavoratori da tutto ciò che è atto a danneggiarla, ivi compreso il fumo passivo; se alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto di fumare in speciali ipotesi, ciò non esclude che da altre disposizioni discenda la legittimità di analogo divieto con riguardo a diversi luoghi e secondo particolari circostanze concrete. Secondo la Consulta, non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) a imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori ma numerose altre disposizioni tra cui, oltre alle discipline specifiche antinfortunistiche, assume valenza decisiva propri l’art. 2087: la norma infatti ha natura certamente precettiva nell’imporre ai datori di attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata. In tale quadro il datore di lavoro ha l’onere di trovare le misure organizzative (dislocazioni, orari, impianti, fino a eventuali divieti) sufficienti a conseguire il fine della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale dell’art. 32, il cui rispetto – dice la Corte – “va inteso nel senso che la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto a una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio”.

Tanto è pregnante il disposto dell’art. 2087 che anche nel caso in cui l’inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro può sorgere a carico del datore una responsabilità risarcitoria, per esempio laddove egli non provveda ad adibire un lavoratore già cagionevole di salute a mansioni più confacenti alla sua menomazione in modo da prevenirne l’aggravamento. Naturalmente in tali casi l’obbligo datoriale deve contemperarsi con la sussistenza di posizioni di lavoro confacenti in azienda per il lavoratore inabile – ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro lavoratore più idoneo – senza però che l’azienda sia costretta a creare per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo [34].

Anche il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune esperienza – la norma le tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce per la giurisprudenza [35] violazione degli artt. 42, comma secondo, Cost. e 2087 CC., pure quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore (che per esempio abbia accettato di effettuare ore di straordinario continuativo ancorché contenuto nel monte ore massimo contrattuale, o abbia rinunciato a periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il datore dall’adottare tutte le misure idonee a tutelarne l’integrità psicofisica.

E’ ormai piuttosto pacifico che il lavoratore abbia il diritto di svolgere un’attività lavorativa che non stravolga i suoi bioritmi e non sia fonte di sovraccarico psichico e fisico, diritto la cui violazione può comportare un danno biologico (o esistenziale, aggiungiamo noi) da superlavoro: in un caso esaminato dalla S.C. [36], un dipendente dell’Ente Autonomo Fiera del Levante – che oltre a svolgere mansioni di capo-ufficio era preposto alla complessa organizzazione della esposizione campionaria – aveva subito un infarto imputabile al “superlavoro” (lavoro straordinario, feriale e festivo, anche presso la propria abitazione, per una media di circa sessanta ore settimanali), cui era stato costretto per diversi anni a causa dell’insufficienza dell’organico e della sproporzione tra il personale addetto e la quantità di lavoro da sbrigare. In casi del genere secondo la Corte il datore di lavoro non può esimersi dal farsi parte attiva nel predisporre ogni misura idonea a prevenire che un’attività a rischio sia dannosa, trattandosi di un rischio statisticamente noto: la responsabilità, anche in questo caso, ruota intorno alla conoscibilità del danno e all’investimento dell’azienda in misure preventive.

Non si legga questo orientamento come un eccesso di paternalistico tutiorismo in favore del lavoratore, perché si tratta dell’esigenza di porre precisi paletti al modo di esercizio dell’impresa onde renderla conforme al dettato costituzionale; operativamente, poi, è l’art. 2087 ad imporre che l’attività di collaborazione cui l’imprenditore è tenuto in favore dei lavoratori non si esaurisca nella predisposizione delle misure di sicurezza previste dalla legge ma si estenda a tutte le iniziative e misure utili per impedire il sorgere o il deterioramento di una situazione patologica o traumatica per il lavoratore.

Sulla base di tali principi inizia a farsi strada la prospettiva della responsabilità datoriale per varie ”sindromi aziendali” enucleate dalla moderna medicina del lavoro, tra le quali la più nota e discussa è quella del c.d. burn-out che soprattutto nell’ambito del lavoro sanitario (essendo tipica degli operatori che lavorano a stretto contatto con situazioni di sofferenza) è diventato un problema molto sentito con elevati costi economici e sociali per gli operatori, per le aziende e per i pazienti.

La sindrome del burn-out viene definita dai medici del lavoro come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, un esaurimento emozionale con spersonalizzazione e riduzione delle capacita’ personali vissuta da operatori sociali (i quali sono particolarmente esposti a tensioni emozionale croniche dovute al continuo contatto con altri esseri umani che sperimentino situazioni problematiche e motivi di sofferenza) come risultato delle condizioni in cui lavorano, e porta l’operatore ad una situazione di insoddisfazione sino a sfociare talvolta nella depressione, con un calo del rendimento sul lavoro tale da poter influire negativamente anche sui compiti di cura dei pazienti.

Tra le cause del burn-out si individuano, oltre a fattori soggettivi legati alla predisposizione personale, fattori oggettivi  connessi alle condizioni di lavoro che vanno dalla situazione ambientale (rumore, sostanze tossiche) a quelle sociali come il “clima” sul luogo di lavoro, gli orari prolungati, la struttura rigida nella quale il lavoratore è costretto ad operare in condizioni disumanizzanti, il tutto chiara fonte di stress occupazionale.

Secondo la scienza che studia il fenomeno, il burn-out non compare improvvisamente (non ha causa violenta) ma e’ un processo graduale assimilabile per struttura alla malattia professionale, che si articola in fasi: in una prima fase il soggetto avverte lo squilibrio tra ciò che può dare e ciò che gli viene richiesto, in una seconda fase compare una risposta emotiva caratterizzata da ansia, tensione, fatica, irritabilita’, esaurimento psicofisico (insonnia disturbi gastrointestinali, cefalee, perdite di ideali, senso di fallimento e frustrazione), nella terza fase si instaura un nuovo atteggiamento verso i pazienti e verso il proprio lavoro. Gli utenti sono visti piu’ come “cose” che come persone, l’assistenza diventa routine, il rendimento lavorativo cala.

Ebbene, tutto ciò, laddove imputabile all’ambiente di lavoro, potrebbe trovare tutela giuridica nell’art. 2087 che – nella sua funzione di norma aperta di chiusura del sistema, si presta ad essere utilizzato con riguardo a fenomeni tipici dell’era moderna (dal mobbing che ormai ha trovato una suo assetto anche in campo giuridico[37], alle sindromi aziendali che ancora sono oggetto di studio). Ci pare corretto che l’operatore del diritto non ignori i fenomeni della società moderna che, in quanto tendente alla post-industrializzazione ed alla terziarizzazione, si presta ad un sostanziale mutamento anche sotto il profilo degli effetti pregiudizievoli sui lavoratori: mentre sino a ieri la maggior parte delle questioni di responsabilità lavoristica riguardavano l’aspetto fisico, oggi si deve fare i conti con aggressioni della sfera psichica ed esistenziale dai contorni spesso impalpabili e sfuggenti ma non per questo meno dirompenti per chi le subisca. Certo anche questa, come tutte le novità, richiederà un periodo di assestamento nel quale è richiesto un grande equilibrio da parte di tutti i soggetti coinvolti (legali, giudici, consulenti medico-legali, INAIL ed assicurazioni private) per evitare che fenomeni seri si trasformino nell’esperienza giudiziaria in baracconi in cui tutto è possibile chiedere, tutto ottenere o tutto negare. Vista l’esperienza del danno esistenziale che, forte ormai dell’avallo della Suprema Corte e di molta giurisprudenza di merito, è un dato da ritenersi acquisito, i tempi sembrano maturi per confidare che il diritto corra di pari passo con il mondo reale e si faccia carico di situazioni pregiudizievoli la cui tutela fino a poco fa è stata del tutto negletta.

3.6. Integrazioni contenutistiche: le leggi di prevenzione e i contratti collettivi. Cenni.

Il lavoratore non è solo beneficiario di un credito di sicurezza ad ampio spettro in virtù dell’art. 2087 CC, perché esiste una vasta congerie di norme specifiche in materia di prevenzione e sicurezza che il datore è tenuto ad osservare.

Tradizionalmente le categorie della sicurezza e dell’igiene del lavoro erano divise per materia, facendo parte di corpi normativi autonomi (DPR n. 547/1955 «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro»; DPR n. 164/1956 «Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni»; DPR n. 303/1956 «Norme generali per l’igiene del lavoro»). Oggi le leggi in materia, come il DPR n. 277/1991 ed il DPR n. 626/1994, in una più estesa concezione di tutela del lavoratore, contengono norme appartenenti all’una ed all’altra categoria.

Con la nuova normativa ai c.d. «debitori interni di sicurezza» (datore di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori, medici competenti, ecc.), sono affiancati i «debitori esterni di sicurezza» (costruttori delle macchine, progettisti, fornitori, installatori, ecc.) con obblighi di diversa, ed in genere minore, portata. Il legislatore del 1994-96 ha introdotto, infatti, nuove posizioni di garanzia penalisticamente rilevanti (c.d. prevenzione «a monte»), per cui anche soggetti sicuramente esterni all’ambiente di lavoro devono osservare misure prevenzionali nello svolgimento di un’attività destinata a confluire nel detto ambiente, al fine di garantire al lavoratore un’adeguata protezione «anticipata»; naturalmente, però, ciascuno di questi soggetti comunque interferenti con l’ambiente lavorativo viene gravato non di tutti gli obblighi posti a carico del datore di lavoro, ma solo di quelli a lui specificamente riconducibili, cioè riferibili alla rispettiva e peculiare competenza ed al contributo limitato che apporta all’intero e composito processo lavorativo. dal costruttore della macchina o dell’impianto, mentre debba esigersi l’osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza, perché nessuno meglio di lui può conoscere le potenzialità offensive del proprio prodotto e porvi rimedio, non possa pretendersi il rispetto della normativa in materia di igiene del lavoro, che riguarda sostanzialmente le modalità e condizioni di installazione e di uso della macchina stessa nell’ambito aziendale, nelle quali non ha in genere alcun potere di ingerenza, e che quindi deve necessariamente gravare sul datore di lavoro.

Per sommi capi ricordiamo che il DPR 27 aprile 1955 n. 547 “Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, all’art. 4 stabilisce gli obblighi dei datori, dei dirigenti e dei preposti i quali “devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze:  a) attuare le misure di sicurezza previste dal presente decreto;  b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le norme essenziali di prevenzione mediante affissione, negli ambienti di lavoro, di estratti delle presenti norme o, nei casi in cui non sia possibile l’affissione, con altri mezzi;  c) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”; a norma dell’art. 5 tali soggetti devono anche “ rendere edotti i lavoratori autonomi dei rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro in cui siano chiamati a prestare la loro opera”. Sulla scorta di tali principi generali il DPR 547 disciplina minuziosamente molti aspetti tecnici: dalla conformazione del posto di lavoro (vie di circolazione, pavimenti, passaggi, solai, vie di emergenza, porte e portoni, scale, ponti sospesi, parapetti, illuminazione, mezzi di difesa da incendi e scariche atmosferiche), alle norme generali di protezione delle macchine (con norme specifiche per la messa in sicurezza di motori, ingranaggi e trasmissioni, macchine operatrici) e degli impianti, dalla protezione dall’elettricità a quella da materie e prodotti nocivi, infiammabili, esplosivi, corrosivi, asfissianti, infettanti, irritanti, taglienti.

Il DPR 19 marzo 1956 n. 303 “Norme generali per l’igiene del lavoro” prevede specifiche norme sulla conformazione, l’illuminazione, l’aerazione, la temperatura, la pulizia dei luoghi di lavoro, nonché discipline sulla difesa dagli agenti tossici (sostanze nocive, polveri, radiazioni, rumore).

Il DPR 11 agosto 1991 n. 277 attuativo delle direttive CEE 80/1107, 82/605, 86/188 e 88/642 disciplina analiticamente la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, con particolare riferimento all’amianto ed ai rumori.

Il DPR 19 settembre 1994 n. 626 (con le modifiche apportate dal DPR 242/1996, dalla legge 422/2000 sui videoterminali, dal DPR 25/2002 sugli agenti chimici) emanato in attuazione delle Direttive del Consiglio CEE riguardanti la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, è soprattutto mirato, nel suo complesso, ad una diversa impostazione del modo di affrontare le problematiche relative, sulla base della “cultura della sicurezza quale sistema di valori e di principi talché la sicurezza stessa da obbligo deve diventare un valore culturale condiviso sui luoghi di lavoro”[38].

Esulando dalla nostra trattazione la disamina analitica di tutta la normativa, di alcuni aspetti della quale ci occupiamo in varie parti del volume, ci limitiamo ad osservare che le innovazioni dalla stessa introdotte sono essenzialmente rivolte ad istituire nelle aziende un sistema di gestione permanente ed organico diretto alla individuazione, valutazione, riduzione e controllo costante dei fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma la legislazione precedente rimane in vigore, salvo i casi di abrogazione espressa o tacita, quale termine obbligatorio di riferimento per l’attuazione delle specifiche misure di sicurezza.

Oltre che dalle specifiche norme antinfortunistiche, quasi sempre la norma codicistica del 2087 è rafforzata sotto il profilo del contenuto dalle clausole dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro: si veda, a titolo meramente esemplificativo, quello del 5 luglio 1994 per i lavoratori delle industrie metalmeccaniche il cui art. 27 (parte generale, sezione terza, disciplina del rapporto individuale di lavoro) rubricato “ambiente di lavoro – igiene e sicurezza” tra l’altro così dispone: “Le aziende manterranno i locali di lavoro in condizioni di salubrità ed in modo da salvaguardare l’incolumità dei lavoratori curando l’igiene, l’areazione, l’illuminazione, la pulizia e, ove possibile, il riscaldamento dei locali stessi, e ciò nei termini di legge; così come nei casi previsti dalla legge, saranno messi a disposizione dei lavoratori i mezzi protettivi (come occhiali, maschere, zoccoli, guanti, stivali di gomma, indumenti impermeabili, ecc.)...”; la minuziosa disciplina in materia di sicurezza sul lavoro data dagli artt. 87 ss del CCNL 29 gennaio 2000 per i lavoratori dell’industria delle costruzioni edilizie ed affini, quella di cui all’art. 5 (ambiente di lavoro e tutela salute dei lavoratori) del CCNL 28 luglio 1999 per i dipendenti dalle aziende esercenti la produzione del cemento, della calce e suoi derivati[39], del CCNL 10 luglio 1998 per gli operai agricoli e florovivaisti[40], del CCNL 27 novembre 1997 per i lavoratori dipendenti dalle imprese artigiane dei settori metalmeccanico ed installazione di impianti[41], del CCNL 27 settembre 1995 per i dipendenti delle piccole e medie industrie del settore manifatturiere delle pelli[42], del CCNL 27 luglio 1995 per i dipendenti dalle industrie tessili[43], del CCNL 20 luglio 1995 per i dipendenti delle aziende esercenti l’attivita’ di lavanderia industriale[44], del CCNL 13 settembre 1994 per i lavoratori addetti alle piccole e medie industria metalmeccanica[45], del CCNL 19 marzo 1994 per le aziende chimiche, chimico-farmaceutiche e produttrici di fibre chimiche[46], e così via.


[1]Secondo i criteri, tendenzialmente coincidenti, della regolarità causale (art. 1223 cod. civ.) e della prevedibilità (art. 1225 cod. civ.), sono risarcibili le conseguenze pregiudizievoli dello inadempimento che di questo rappresentino effetti immediati e diretti o effetti mediati e indiretti rientranti comunque nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie dell’inadempimento medesimo, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di media diligenza.” Così, ex permultis, Cass 19 gennaio 1985 n. 164. Ed ancora “La prevedibilità del danno, posta dall’art. 1225 cod. civ. come limite alla risarcibilità, si identifica in un’astratta prevedibilità del danno concretamente verificatosi, essendo, quindi, a tal fine sufficiente che questo sia virtualmente ricollegabile alla stregua di criteri obiettivi all’inadempimento da cui deriva, secondo l’incensurabile apprezzamento istituzionalmente demandato al giudice del merito.” Cass 28 maggio 1983 n.3693

[2] Quanto al danno biologico e morale, l’unica possibile forma di liquidazione dì ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità è quella equita- sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura del danno e nella funzione dal risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico (crf da ultimo Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e 8828).

[3] caso in cui si faccia valere il concorso di colpa del danneggiato nella produzione dell’evento lesivo al fine di ridurre l’entità dei danni da risarcire, il giudice del lavoro possa autonomamente esercitare d’ufficio i propri poteri istruttori ex articolo 421 e 436 CPC, per non essersi in presenza di una fattispecie in cui è necessaria la domanda di parte. Cfr. Cass. 8 aprile 2002 n. 5024

[4]di modo che, ai fini dell’affermazione della detta responsabilità, deve essere accertato il nesso di causalità tra l’opera dell’ausiliario e l’obbligo del debitore” Cass.11 maggio 1995 n.5150

[5] È la fondamentale sentenza resa dalla Corte Costituzionale nel caso Repetto / AMT di Genova, 14 luglio 1986 n. 184

[6] oggi, pare che il costrutto sia da rivedere, alla luce degli ultimissimi orientamenti sul 2059 espressi dalla Cassazione e dalla stessa Corte Costituzionale. Approfondiamo il punto nel paragrafo dedicato al danno morale

[7] che, è noto, stabilisce che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ossia, ad esclusione di ipotesi marginali, quando il fatto integra una previsione astratta di reato.

Rinviando i lettori alle numerosissime pagine spese dalla dottrina sul 2059, richiamiamo l’attenzione alla genesi storica della norma, per evidenziare come la sua presenza non costituisca un dato necessario del nostro ordinamento.

Monateri (in “Alle soglie di una nuova categoria risarcitoria: il danno esistenziale”, in Danno e Responsabilità, n.11/99, 5) ricorda come la locuzione “danno non patrimoniale” non sia autoctona ma ricalcata su quella tedesca Nicht Vermoegen Shaden, come la formulazione del 2059 sia analoga al paragrafo 253 del BGB che recita “Per un danno non è danno patrimoniale, può pretendersi risarcimento in danaro solo nei casi determinati dalla legge”, ma come nell’operazione di trapianto nell’ordinamento italiano non si tenne conto che il par. 847 del BGB stabilisce che “nel caso di lesione del corpo o della salute l’offeso può pretendere un equo risarcimento in danaro anche per il danno che non è patrimoniale”.

E’ poi il Tribunale di Roma, nella persona del giudice unico Rossetti, con l’ordinanza 20 maggio 2002 (in Corriere Giuridico, n.10/2002, 1331) ad esporre come storicamente non vi fosse alcuna necessità per il legislatore del 1942 di formulare il 2059 così come ce lo ritroviamo: Rossetti – con un excursus che parte dal Digesto, passa per i glossatori ed i giureconsulti dell’era dello ius commune, per le ordinanze di Domat ed il Code Civil napoleonico, giungendo al nostro codice civile del 1865 – dimostra come fosse in realtà avulso dalla nostra tradizione giuridica il negare la risarcibilità del danno morale se non nei casi di reato, quantomeno fino agli inizi del ‘900 quando, per effetto di una pronuncia della Cassazione a S.U. del 1912 e della nuova Cassazione unica del 1924 e della giurisprudenza che ne seguì, si ebbe il mutamento di rotta. Quando i codificatori scrissero il 2059 è vero che recepirono il diritto vivente, ma solo quello che vollero trarre da un orientamento tutt’altro che pacifico, molto recente, non sorretto dalla tradizione.

[8] così ricorda la sentenza 184: “l’art. 2043 del c.c. è una sorta di “norma in bianco”: mentre nello stesso articolo è espressamente e chiaramente indicata l’obbligazione risarcitoria, che consegue al fatto doloso o colposo, non sono individuati i beni giuridici la cui lesione è vietata: l’illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere dell’obbligazione risarcitoria, viene indicata unicamente attraverso l’“ingiustizia” del danno prodotto dall’illecito.”

[9] cfr la sentenza del Tribunale di Pisa del 2001 di cui parliamo diffusamente nel capitolo sui danni risarcibili

[10] Pret. Milano, 28 dicembre 1990, in Riv. It. Dir. Lav., 1991, II, 388, con nota di Pera.

[11] cfr la sentenza 3 ottobre 2001 del Tribunale di Pisa di cui parliamo nel paragrafo sul danno esistenziale

[12] impervia per il danneggiato sotto il profilo probatorio, come si vede nel caso del danno esistenziale (v. Cass. 9009/01, di cui ampiamente nel paragrafo sui danni risarcibili)

[13] cfr Cass 10 maggio 1997 n. 4097, Cass. 26 ottobre 1995 n. 11120, Cass 17 luglio 1995 n. 7768, Cass.23 giugno 1994 n.6061, Cass 5 ottobre 1994 n. 8090

[14] cfr. Cass. 6 marzo 1995 n. 2577, Cass. 5 ottobre 1994 n. 8090

[15] come sostiene un orientamento espresso, tra le altre, da Cass. 8 aprile 1995 n. 4078, la scelta del titolo extracontrattuale sarebbe utile perché, nel caso in cui la condotta integri gli estremi di reato, si può estendere il diritto al risarcimento anche ai danni non patrimoniali. Si tratta di una interpretazione poco condivisibile, poiché il 2087 tutela anche la personalità morale del lavoratore la cui lesione – per effetto di una condotta illecita, criminosa o meno che sia – deve essere riparata

[16] Cass. 1 febbraio 1995 n. 1168

[17] Cfr in questo senso Cass. 27 giugno 1998, n. 6388, che ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda ex art. 2087 cod. civ. per difetto di prova del collegamento causale tra la polmonite batterica che aveva determinato la morte del lavoratore e le mansioni svolte, anche nell’ottica dell’accertato rispetto della disposizione citata in relazione alle condizioni dell’ambiente di lavoro.

Cfr. anche Cass. 2 giugno 1998 n. 5409: “L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attivita’ esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all’esperienza ed alla tecnica; tuttavia da detta norma non puo’ desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilita’ del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l’evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati. (Nella specie una ballerina si era infortunata scivolando durante l’esibizione in un locale della sua datrice di lavoro, di cui aveva chiesto la condanna al risarcimento dei danni; il giudice di merito aveva rigettato la domanda, previo accertamento – non sottoposto a censure ammissibili in sede di legittimita’ – che la pista da ballo era molto lucida ma non scivolosa).”

[18] Cass. 10 maggio 1997 n. 4097

[19] “cfr Cass.pen. 21 maggio 1996 n.5114: “l’art. 2087 c.c., pur non contenendo prescrizioni di dettaglio come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura, per altro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia a protezione di fini individuali. Detta norma, per il richiamo alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore e alla particolarità del lavoro, rende specifico l’illecito consumato in sua violazione sia rispetto alla colpa generica richiamata nell’art. 2043 c.c. che rispetto a quella di rilievo penalistico e in tal caso aggrava il reato, rendendolo perseguibile di ufficio.”

[20] cfr. Cass. 22 aprile 1997 n.3455: “quando l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli

[21] in questo senso, tra le altre, cfr. Cass. 22 novembre 1995 n. 11333

[22] cfr Cass. 27 settembre 1994 n.10164

[23] Così, ex multis, recita Cass. 22 novembre 1995 n.11333: “In tema di esposizione dei lavoratori a rumori dannosi, sono penalmente irrilevanti, quanto all’obbligo giuridico che grava sui produttori, di macchine ed attrezzature, eventuali certificazioni dell’Ispes (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, istituito con D.P.R. 31 luglio 1980, n. 619 presso il Ministero della sanità), poiché il D.L.vo 15 agosto 1991, n. 277 all’art. 46 non prevede una formalità tipica di controllo preventivo tecnico, ma – in omaggio alle direttive comunitarie ed in rispondenza alle mutevoli condizioni tecnologiche – esige il rispetto del principio di ordine generale della riduzione massima possibile della esposizione a rischio di rumore, principio che va accertato caso per caso”.

[24] cfr Cass.20 giugno 1998 n. 6169, e da ultimo Cass. 05 marzo 2002 n. 3162 nel caso di un dipendente Italgas addetto al reparto di pronto intervento, il quale aveva subito una lesione ad un occhio perché si era spezzata la maniglia del furgone aziendale alla quale si era aggrappato per salire sul mezzo: la sentenza di merito aveva affermato la responsabilità della datrice di lavoro, sul presupposto che a quest’ultima spettasse di provare rigorosamente l’osservanza degli obblighi di sicurezza e, in particolare, di avere controllato lo stato della carrozzeria; la S.C., nell’annullare, ha anche rilevato, sotto il profilo del vizio di motivazione, che la sentenza impugnata aveva omesso ogni valutazione circa l’avvenuta dimostrazione che il mezzo era stato sottoposto a revisione pochi giorni prima dell’infortunio

[25] Cass 6 settembre 1988 n.5048

[26] Cass. 3 aprile 1990 n. 2681: “La responsabilita` del datore di lavoro per l’impiego di una macchina non conforme alle prescrizioni antinfortunistiche (nella specie, di una granulatrice priva del dispositivo di blocco previsto dall’art. 72 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547) non e` esclusa per il fatto che la macchina sia stata costruita o posta in commercio nella vigenza di quelle prescrizioni, e quindi in violazione del divieto posto dall’art. 7 del citato D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, atteso che con tale disposizione il legislatore ha introdotto una disciplina, rafforzativa della tutela della sicurezza del lavoratore, che concorre, senza escluderlo, con l’obbligo di attuazione delle prescrizioni di sicurezza imposto al datore di lavoro, in applicazione del principio generale ex art. 2087 cod. civ., dall’art. 4 D.P.R. medesimo.”

[27] Tra le tante, v. Cass. 17 luglio 1995 n. 7768

[28] La costante interpretazione di tale disposizione (cfr. Cass. 3738/95, 2035/95 e 5002/90) è nel senso di ravvisarvi un vero e proprio precetto e non la mera enunciazione di un principio, avendo il Legislatore inteso sancire un ulteriore generico obbligo per il datore di lavoro di individuare e porre in essere le cautele (ulteriori rispetto a quelle previste dalle specifiche disposizioni antinfortunistiche) che in concreto si rendano necessarie per la tutela della sicurezza dell’attività lavorativa.

[29] cfr Cass. 23 maggio 2001 n. 7052, secondo la quale l’obbligo incombente in capo al datore di lavoro di vigilare sulla osservanza da parte dei lavoratori delle misure di sicurezza, non si estende fino a comprendere quello di impedire comportamenti anomali ed imprevedibili posti in essere in violazione delle norma di sicurezza, limitandosi il suo contenuto all’apprestamento delle predette misure e di vigilanza sulla osservanza delle stesse, ed apparendo inesigibile un controllo personale di tutti i lavoratori. (Nella specie, alla stregua del principio di cui alla massima, la S.C. ha confermato la decisione del giudice di secondo grado che, in difformità dalla decisione del pretore, aveva rigettato la domanda dell’INAIL di rivalsa nei confronti del datore di lavoro per le somme erogate in favore di un lavoratore che, nel corso di scavi che stava effettuando in trincea, era stato investito da una frana delle pareti, determinatasi durante la esecuzione di opere (inclinazione, a mezzo di escavatore, delle pareti della trincea) dirette alla predisposizione di misure di sicurezza, essendo entrato in una zona nella quale il pericolo di tale frana era manifesto, nonostante gli avvertimenti verbali e le segnalazioni in tal senso);

cfr anche Cass. 8 febbraio 1988 n. 1638 secondo cui “la responsabilità dell’imprenditore per l’inosservanza delle norme antinfortunistiche non è esclusa se al momento dell’infortunio il lavoratore svolge mansioni non di sua competenza e non affidategli, sia perchè la sfera di tutela delle condizioni in cui la concreta attività del dipendente si esplica non è circoscritta all’usuale attività ma si estende ad ogni tipo di lavoro, sia perchè la responsabilità de qua può essere esclusa soltanto in caso di condotta del lavoratore del tutto anormale, esorbitante dal processo lavorativo, oppure in aperto dispregio di precise direttive antinfortunistiche impartite”.

[30] Così si esprime Cass. 26 giugno 2002, n. 9304. Cfr Cass. 17 febbraio 1999 n. secondo cui, se non e’ sufficiente il semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso causale, tuttavia l’imprenditore e’ esonerato da responsabilita’ quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’esorbitanza, atipicita’ ed eccezionalita’ rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi’ da porsi come causa esclusiva dell’evento. (Nella specie e’ stata cassata la sentenza di merito che non aveva motivato sull’incidenza, nella causazione dell’infortunio, del comportamento del lavoratore addetto al carico e scarico dei materiali ed alla manutenzione dei mezzi di trasporto, il quale, nel tentativo di rimuovere un cavo elettrico rimasto incagliato nello stabilizzatore del camion, aveva inserito la mano nello stabilizzatore stesso senza accertarsi che il manovratore fermasse il mezzo).

[31] Cass. 8 febbraio 1993 n.1523; Cass. 8 aprile 2002, n. 5024

[32] Pro, cfr Cass. 22 marzo 2002 n. 4129 che ha affermato la risarcibilità dei danni subiti da un perito industriale – assunto da una ditta specializzata in ricerche geologiche incaricata da una società, aggiudicatrice della progettazione di un canale in Etiopia, di effettuare dei sondaggi geologici – rimasto vittima di un rapimento ad opera di un gruppo di guerriglieri opponentisi al progetto, avendo rilevato che il datore di lavoro, pur a conoscenza della grave situazione di pericolo esistente nella zona dei lavori, non aveva fatto uso di una maggiore diligenza e dei propri poteri decisionali in ordine alla sorveglianza nei confronti dei propri dipendenti, nonché all’accertamento della reale situazione allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso.

Cfr anche Cass. 20 aprile 1998 n. 4012 che attribuisce particolare rilievo alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilita’ del verificarsi del relativo rischio, per affermare la risarcibilita’ dei danni subiti da un impiegato di banca, rimasto coinvolto in tre rapine, a seguito delle quali aveva riportato un grave stato di malattia nervosa, avendo rilevato come il datore di lavoro, pur mettendo in opera le misure di sicurezza minime previste da un accordo aziendale in materia, non aveva provveduto a garantire il piantonamento dell’agenzia alla quale era addetto il lavoratore ne’ ad attivare un sistema d’allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell’ordine.

Sempre in tema di responsabilità della banca, cfr Cass. 6 settembre 1988 n. 5048 che ha affermato la risarcibilita` dei danni subiti da un impiegato di banca, rimasto ferito nel corso di una rapina verificatasi, dopo altri due fatti simili, in una sede la cui porta di accesso al pubblico era munita di un congegno automatico di apertura difettoso.

Contra, cfr Cass. 5 dicembre 2001 n. 15350 secondo la quale “In riferimento alla tutela dell’integrità fisiopsichica dei lavoratori dipendenti dalle aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, l’ampio ambito applicativo dell’art. 2087 cod. civ. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno sull’assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenza di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché in tal modo si perverrebbe all’abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva ancorata al presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell’evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento, atteso il superamento criminoso di quelli in concreto apprestati dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva respinto la domanda di una dipendente postale volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico patito in conseguenza dei forti traumi emotivi subiti per effetto di cinque rapine commesse, nell’arco di sette anni, ai danni dell’ufficio postale nel quale prestava servizio)”.

Cfr anche Cass. 6 febbraio 1998 n. 1241 che pone l’accento sulla necessità che le aggressioni criminose da parte di terzi, pur non essendo direttamente collegati all’attività lavorativa, ne costituiscano tuttavia un profilo caratteristico. Nel caso di specie, trattandosi dell’aggressione ad un medico dipendente dell’INAIL. da parte di un assicurato negli uffici dell’istituto, attesa l’occasionalita’ dell’aggressione, non e’ configurabile una violazione dell’art. 2087 cod. civ. per l’omessa adozione di misure idonee a preservare l’integrita’ dei dipendenti, non essendo peraltro ravvisabile un’infortunio sul lavoro ai sensi dell’art. 2 d.P.R. n. 1124 del 1965, atteso che, pur sussistendo la causa violenta e l’occasione di lavoro, il fatto non e’ stato originato da una delle attivita’ imprenditoriali protette elencate nell’art. 1 d.P.R. n. 1124 citato.

[33] sentenza 11 dicembre 1996 n. 399

[34] quando infatti ciò non sia possibile, il datore di lavoro può far valere l’infermità del dipendente quale titolo legittimante il recesso ed addurre l’impossibilità della prestazione per inidoneità fisica – in applicazione del generale principio codicistico dettato dall’art. 1464 c.c. – configurandosi un giustificato motivo oggettivo di recesso per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute (cfr Cass. 3 luglio 1997 n. 5961)

[35] Cass. 1 settembre 1997, n. 8267

[36] Cass. 5 febbraio 2000 n.1307, in Danno e Responsabilità, 2001, 385 con nota di Bona

[37] cfr da ultimo, in questa stessa collana, “La RC nel mobbing” di Bona-Monateri-Oliva

[38] così la Relazione del 30 giugno 1997 sull’attività del Comitato Consultivo per l’applicazione presso la Corte di cassazione delle disposizioni della 626

[39] Che tra l’altro recita: “1. Le parti convengono sulla necessità di evitare, correggere ed eliminare le condizioni ambientali nocive o insalubri e, a tal fine, per quanto riguarda i valori-limite dei fattori di nocività di origine chimica, fisica e biologica fanno riferimento ai livelli previsti dalle norme nazionali, comunitarie ovvero, in assenza di dette norme, dalle tabelle dell’American Conference of Governmental Industrial Hygienists nella traduzione del testo in lingua inglese effettuata a cura dell’Associazione Italiana degli Igienisti Industriali.

Le Aziende cureranno che nell’ambito delle unità produttive, ivi comprese le miniere e le cave, i lavoratori siano informati anche attraverso iniziative di carattere formativo e, se del caso, attraverso appositi supporti a stampa:

- sui rischi specifici cui sono esposti, sulle norme di sicurezza e sulle disposizioni aziendali in materia di prevenzione e sicurezza;

- sui mezzi di protezione individuale da adottare ai sensi dei provvedimenti legislativi per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro.

[40] Così dispone l’art. 64,  Tutela della salute dei lavoratori: “Allo scopo di salvaguardare la salute degli operai addetti a lavori che presentano “fattori di nocività”:

a) per quanto riguarda la manodopera florovivaistica, le aziende limiteranno la prestazione a quattro ore giornaliere degli operai adibiti a tali lavori e concederanno agli stessi due ore e venti minuti di interruzione retribuita. Il rimanente periodo per completare l’orario normale giornaliero verrà impiegato in altri normali lavori dell’azienda;

b) per quanto riguarda gli operai agricoli, i Contratti provinciali di lavoro dovranno stabilire una riduzione dell’orario di lavoro – a parità di retribuzione e di qualifica – di due ore e venti minuti giornaliere

[41] il cui art.13, Ambiente di lavoro, recita: “I lavoratori e gli artigiani hanno un comune interesse all’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e all’attuazione delle misure idonee a tutelare la salute e l’integrita` fisica nell’ambiente di lavoro; pertanto le parti si impegnano ad operare affinche` l’azione di prevenzione dei servizi di medicina del lavoro a cio` preposti trovi attuazione anche nell’ambiente di lavoro delle imprese artigiane”.

[42] Il cui art.17, capitolo 3, Ambiente di Lavoro, dispone: “Le parti riconoscono che la rigorosa adozione delle misure e  dei  mezzi  di prevenzione  costituisce  elemento  essenziale per prevenire ed eliminare il rischio di infortuni sul lavoro e malattie professionali.  E` compito del datore di lavoro: a) adottare le misure necessarie per la prevenzione e la  sicurezza  secondo la legislazione vigente; b)  informare i lavoratori e le Rappresentanze Sindacali Unitarie sui rischi e sulle misure di protezione adottate; c)  assicurare  la  disponibilita`  di  adeguati  strumenti  di   protezione individuale e collettiva. I lavoratori sono tenuti a:  osservare  scrupolosamente le disposizioni ricevute in relazione a quanto previsto alla lettera b) del precedente comma; utilizzare gli strumenti di protezione individuale  e  collettiva;

[43] il cui art., Ambiente di lavoro – doveri delle aziende e dei lavoratori, così dispone: “La prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali ed il rispetto delle relative norme di legge costituiscono un preciso dovere delle  aziende e  dei  lavoratori,  cosi`  come  previsto dagli artt.  4 e 5 del D.Lgs.  19 settembre 1994, n. 626.  I datori di lavoro, i lavoratori, il medico competente,  il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza   collaborano,   nell’ambito   delle   rispettive   competenze   e responsabilita` per  ridurre  progressivamente  i  rischi  e  migliorare  le condizioni ambientali di igiene e sicurezza. In particolare: il  datore  di  lavoro  e` tenuto all’osservanza delle misure generali di tutela come previsto dall’art.  3 del D.Lgs.  19 settembre 1994, n.  626; in relazione alla natura dell’attivita` dell’unita` produttiva,  deve valutare, nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o  dei  preparati chimici impiegati, nonche` nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari. Il lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro,  su cui possono  ricadere  gli  effetti delle sue azioni o omissioni,  conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni ed ai mezzi  forniti  dal  datore  di lavoro.  In  particolare  i lavoratori sono tenuti agli obblighi contemplati dal secondo  comma  dell’art.  5  del  D.Lgs.  19  settembre  1994,  n.  626 relativamente all’osservanza delle disposizioni ed istruzioni loro impartite dai   rispettivi   superiori,   ai   fini  della  protezione  collettiva  ed individuale, ed all’utilizzo corretto dei macchinari, delle apparecchiature, degli utensili,  delle sostanze e dei preparati  pericolosi,  dei  mezzi  di trasporto  e  delle  attrezzature  di  lavoro,  nonche`  dei  dispositivi di sicurezza.  L’adozione e l’uso appropriato  dei  mezzi  di  prevenzione  e  protezione individuali  e  collettivi,  in quanto derivanti da disposizioni normative o dalla consultazione tra  datori  di  lavoro,  dirigenti  e  preposti  con  i rappresentanti  per la sicurezza,  deve essere scrupolosamente osservata dai lavoratori interessati. Il lavoratore segnalera`,  tempestivamente,  al proprio  capo  diretto  le anomalie  che  dovesse rilevare durante il lavoro nel corretto funzionamento di impianti,  macchinari ed attrezzature o nello stato  di  conservazione  e condizioni di utilizzo di sostanze nocive e pericolose, ed ogni altro evento suscettibile di generare situazioni di pericolo.”

[44] Il cui art 54, parte 1, capitolo 4, Ambiente di lavoro – doveri delle aziende e dei lavoratori, cos’ dispone: “La prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali ed il rispetto delle  relative norme di legge costituiscono un preciso dovere delle aziende e dei lavoratori,  cosi` come previsto dagli artt.  4  e  5  del  D.Lgs.  19 settembre 1994 n. 626. I datori di lavoro,  i lavoratori, il medico competente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza   collaborano,   nell’ambito   delle   rispettive   competenze   e responsabilita`,  per  ridurre  progressivamente  i  rischi  e migliorare le condizioni ambientali di igiene e sicurezza. In particolare: il  datore  di  lavoro  e` tenuto all’osservanza delle misure generali di tutela come previsto dall’art.  3 del D.Lgs.  19 settembre 1994, n.  626; in relazione alla natura dell’attivita` dell’unita` produttiva,  deve valutare, nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o  dei  preparati chimici impiegati, nonche` nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari. Il lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della  propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro,  su cui possono ricadere gli effetti delle sue  azioni  o  omissioni,  conformemente alla  sua  formazione  ed  alle istruzioni ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro.  In particolare i lavoratori sono tenuti agli  obblighi  contemplati dal  secondo  comma  dell’art.  5  del  D.Lgs.  19  settembre 1994,  n.  626 relativamente all osservanza delle disposizioni ed istruzioni loro impartite dai  rispettivi  superiori,   ai  fini  della   protezione   collettiva   ed individuale, ed all’utilizzo corretto dei macchinari, delle apparecchiature, degli  utensili,  delle  sostanze  e dei preparati pericolosi,  dei mezzi di trasporto e  delle  attrezzature  di  lavoro,  nonche`  dei  dispositivi  di sicurezza.”

[45] A norma del cui art. 25: “le aziende, ai sensi di legge,  manterranno i locali di lavoro in condizioni che   assicurino   la   salubrita`  e  l’igiene  dell’ambiente,   curandone l’aerazione, la pulizia, l’illuminazione e possibilmente il riscaldamento. Parimenti  le  aziende,   nei  casi  previsti  dalla  legge,   metteranno  a disposizione  i mezzi protettivi e adotteranno tutti quei provvedimenti atti a garantire la sicurezza del lavoro. Fatto salvo il rispetto per il segreto industriale,  le  aziende  forniranno alle rappresentanze sindacali unitarie di ogni stabilimento,  l’elenco delle sostanze presenti  nelle  lavorazioni  quando  queste  siano  relative  alle malattie  professionali  e/o quelle per le quali vige l’obbligo delle visite preventive e/o periodiche.”

[46] Nel cui art.46, capitolo 8,  Prevenzione, igiene e sicurezza del lavoro, si legge: “La prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali ed il rispetto delle relative norme di legge e di quelle a tal fine  emanate  dagli  organi competenti costituiscono un preciso dovere dell’azienda e dei lavoratori. Non  sono  ammesse  le  lavorazioni nelle quali la concentrazione di vapori, polveri,  sostanze tossiche,  nocive o pericolose superi i limiti  stabiliti dalle tabelle dell’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (TLV) secondo i criteri di applicazione indicati nelle tabelle stesse.  Tali tabelle  sono  allegate  al  presente  contratto  e  verranno  aggiornate in relazione alle modifiche ad esse apportate.

Il datore di lavoro prende le misure  necessarie  per  la  protezione  della sicurezza e della salute dei lavoratori. Tali misure comprendono: la prevenzione dei rischi; l’informazione  dei lavoratori sui rischi e sulle misure di prevenzione e di protezione adottate per il loro reparto,  posto di lavoro  e/o  funzione, tenendo conto ove necessario della nazionalita` dei lavoratori; la  formazione adeguata dei lavoratori in relazione ai rischi inerenti al posto di lavoro e/o funzione e alle relative modificazioni; l’adozione di un’appropriata organizzazione e dei mezzi di  prevenzione  e protezione individuale e collettiva necessari.

Inoltre, il datore di lavoro puo`  sottoporre  a controllo sanitario periodico il lavoratore addetto a lavorazioni nocive non comprese fra quelle considerate tali dalla legge  col consenso dello stesso e previa informazione alla R.S.U.; predisporra`,  fermo  restando  quanto previsto in materia dall’art.  42, controlli sanitari periodici per i lavoratori addetti alle  lavorazioni  che comportino   esposizione   significativa   a   sostanze  causa  di  malattia professionale per le quali non e` previsto dalla legge l’obbligo a controlli sanitari preventivi e periodici;deve  disporre  che  i  lavoratori  addetti  a  reparti  ove  si  svolgono lavorazioni  di sostanze nocive,  consumino i pasti fuori dai reparti stessi in locali adatti; ricerchera`,  per i lavoratori addetti ad attivita`  che  nell’arco  della giornata  comportano  un  utilizzo  continuativo del videoterminale,  idonee soluzioni atte ad assicurare: un’adeguata sistemazione da un punto di  vista  ergonomico  del  posto  di lavoro; l’effettuazione di visite oculistiche; l’utilizzo degli idonei mezzi di schermatura eventualmente necessari; dovra` attivarsi affinche` i datori di lavoro dei lavoratori delle imprese che  siano  presenti nel proprio stabilimento ricevano comunicazione scritta di tutte le norme generiche e specifiche in materia di sicurezza, igiene del lavoro e tutela della salute destinate  ai  lavoratori  interessati,  tenuto conto  dell’ambiente  di  lavoro  in  cui si trovano ad operare.  Allo scopo all’impresa appaltatrice saranno anche illustrate le  eventuali  particolari esigenze di tale ambiente.

I datori di lavoro delle imprese dovranno,  in sede di stipula del contratto di appalto,  essere impegnati  ad  osservare  e  far  osservare  dai  propri dipendenti le norme di sicurezza che l’azienda committente comunichera`. Nel caso di attivita` che presentino rischio di incidente rilevante ai sensi del   D.P.R.   175/88,   il   datore   di   lavoro,   oltre   a   provvedere all’individuazione dei rischi,  all’adozione di misure preventivo e di mezzi di protezione appropriati, all’informazione, deve definire le procedure e le norme di comportamento da seguire in caso di emergenza.”

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